15 maggio 2017 16:19

La settimana scorsa due studenti palestinesi dell’università di Bir Zeit (Bzu) mi hanno contattata per un’intervista sulle politiche espansionistiche di Israele. Sfortunatamente non sono nel paese e non ho potuto aiutarli. Ma forse avrei dovuto ricordargli che per alcuni importanti professori di sinistra palestinesi qualsiasi interazione con me è da considerarsi tabù, una normalizzazione dell’occupazione e, peggio ancora, della colonizzazione della Palestina cominciata alla fine dell’ottocento.

Negli ultimi anni alcuni professori della Bzu hanno respinto le mie richieste di interviste per via delle regole “antinormalizzazione” (in precedenza, in quanto corrispondente di Haaretz, non avevo mai avuto problemi). Ad aprile due esponenti del partito comunista israeliano hanno partecipato a una conferenza alla Bzu. Gli studenti affiliati al Fronte popolare hanno contestato la loro presenza in nome del rifiuto della “normalizzazione”. La settimana scorsa ho chiamato un esponente di Hamas per chiedergli di commentare il nuovo documento sui princìpi e la politica generale del partito. Mi ha chiesto di non rivelare il suo nome per evitare di essere preso di mira da un noto attivista di sinistra che si scaglia contro chiunque osi “normalizzare”.

Vivo tra i palestinesi da venticinque anni e ormai capisco queste reazioni. Anche a me piacerebbe poter cancellare la storia. Ma davvero questo atteggiamento fa bene alla causa? Valutate voi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 12 maggio 2017 a pagina 26 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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