19 giugno 2017 17:20

“Un afgano era in piedi vicino all’ingresso del campo e si grattava le palle intensamente. Chissà da quanti giorni non si lavava. I soldati (sloveni) che ci controllavano non dicevano niente. Non avevamo il permesso di parlare con loro, e quando lo facevamo non reagivano. Ma per qualche motivo questo afgano dava fastidio a un soldato, al punto che gli ha gridato: ‘Che stai facendo?’. Li ho guardati e sono scoppiato a ridere”.

Forse era la prima volta che Tamer sorrideva da quando, dieci giorni prima, era cominciata la sua fuga dalla Turchia al Belgio. Aveva istintivamente simpatizzato per l’afgano. D’altronde anche lui si era lavato per la prima volta sedici giorni dopo l’inizio della sua odissea. “La mia è una storia comune, non ha niente di speciale”, mi ha detto. “Ma sei l’unico fuggitivo che conosco da quando era un bambino”, gli ho risposto. Mi ricordavo ancora di lui, bambino di cinque anni nella casa dei genitori in un campo profughi della Striscia di Gaza. La mia amicizia con la sua famiglia si era rafforzata nel corso degli anni, nonostante il blocco imposto a Gaza dal governo israeliano. Il blocco ha impedito a Tamer di tornare a casa dopo gli studi e lo ha spinto a presentare domanda d’asilo in Belgio.

“Puoi fargli da madre per qualche giorno?”, mi ha chiesto il padre con un messaggio su Whatsapp. Così a Bruxelles ho trovato un ragazzo di 28 anni disilluso e pacato, che aveva molto da insegnarmi sulle difficoltà, la solitudine e la determinazione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 16 giugno 2017 a pagina 29 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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