15 dicembre 2015 12:53

Selezionando gli articoli per Internazionale capita spesso di leggere ottime analisi. Un po’ meno di frequente, com’è ovvio, capita di imbattersi in articoli dei quali si condivide l’impostazione e le conclusioni. E ancora più di rado succede di trovarsi di fronte a pezzi con i quali si è del tutto d’accordo, al punto da volerne fare dei manifesti programmatici.

Uno di questi rari articoli l’ho letto qualche settimana fa sul sito Eurozine, che fa un meritorio lavoro di traduzione in diverse lingue di materiali presi dalle riviste culturali e politiche di tutta Europa, dalla Scandinavia ai Balcani. Un primo, importante esempio di quel dibattito comune su temi di rilevanza paneuropea – immigrazione, libertà, sicurezza, identità – che tutti gli europeisti invocano ma che è ancora allo stato embrionale.

Il pezzo in questione è firmato dallo scrittore austriaco Robert Menasse, si intitola Kurze Geschichte der europäischen Zukunft (Una breve storia del futuro europeo) ed è esattamente il tipo di articolo che in questo frangente storico, complesso e poco rassicurante, offre qualche motivo di conforto, sotto forma di un’analisi chiara, lucida e priva di ogni retorica del più grande pericolo che oggi gli europei si trovano ad affrontare: il ritorno dello stato-nazione e del suo più deteriore sottoprodotto politico e ideologico, il nazionalismo.

Il continente è intrappolato tra un passato che non esiste più, quello degli stati nazionali, e un futuro che non ha ancora preso forma

Dimenticate le ragioni profonde che dopo la guerra hanno portato alla nascita del progetto europeo, scrive Menasse, oggi “i rappresentanti politici nazionali, consapevoli che la loro sopravvivenza dipende da quanto mostrano di impegnarsi in difesa degli ‘interessi nazionali’, sostengono con ogni mezzo la falsa idea che questi ‘interessi nazionali’ coincidano perfettamente con quelli dell’elettorato dei singoli paesi. Il risultato è il circolo vizioso che chiamiamo rinazionalizzazione”.

Eppure “tutti gli argomenti a favore dell’indispensabilità dello stato nazionale sono stati da tempo negati dalla storia e, per chi non sa la storia, dalla realtà e dalle esperienze contemporanee”. Anche la recente crisi istituzionale e politica dell’Europa dipende dallo stallo di questo processo inarrestabile: il continente è intrappolato tra un passato che non esiste più, quello degli stati nazionali, e un futuro che non ha ancora preso forma, e che gli europei non hanno abbastanza coraggio per pensare, cioè quello di un’organizzazione politica postnazionale.

“L’idea del superamento degli stati nazionali e della nascita di un’Europa postnazionale non è affatto utopistica”, continua Menasse. “È quello che negli ultimi sessant’anni ha concretamente fatto l’Europa. Alla luce delle esperienze storiche, la vera utopia, per quanto negativa, è la convinzione – sempre più diffusa – che le nazioni possano essere salvate e che siano l’unico organismo capace di garantire libertà, autonomia, stato di diritto, pace e sicurezza”.

Destinati all’unità

Dopotutto, scrive Menasse citando il celebre e profetico discorso pronunciato da Victor Hugo alla conferenza di pace di Parigi nel 1849, se “la Normandia, la Bretagna, la Lorena, l’Alsazia e le altre province si sono fuse per formare la Francia, senza perdere le loro qualità distinte e le loro gloriose individualità”, perché lo stesso non può succedere alle nazioni europee? “La Germania non è forse il risultato di quaranta piccoli stati che decidono di unirsi in un mercato comune e poi di darsi istituzioni e regole condivise?”. In fondo la costruzione di un’Europa unica e unita non è il coronamento del processo che hanno vissuto tutte le grandi nazioni europee?

L’orizzonte delineato da queste parole dovrebbe essere, per ogni europeo che ha memoria delle vicende passate del continente, l’unico possibile entro cui agire. Con questo non si vuole sorvolare sulle gravi colpe che possono, a ragione, essere attribuite alle istituzioni europee. Ma non si può non ricordare che, a ben vedere, molte di queste colpe – per esempio sulla gestione della crisi greca o sulla questione dell’accoglienza dei profughi – sono proprio il risultato del prevalere di logiche e di interessi nazionali.

Cercare di difendere la sovranità nazionale è un compito futile e deleterio

Affermare che per affrontare il futuro serve più Europa può essere considerato un comodo stratagemma retorico ormai abusato. Ma a chi crede che ogni problema possa essere risolto costruendo confini, restando attaccati a un concetto ottocentesco di sovranità e usando l’identità nazionale come strumento di esclusione, forse conviene ricordare che alla vigilia della seconda guerra mondiale Stefan Zweig definiva il nazionalismo la “peggior peste” del secolo, quella che “ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea”. E che è stata alla base delle tragedie del novecento.

Sessant’anni dopo la firma del trattato di Roma, cercare di difendere la sovranità nazionale è un compito futile e deleterio. Quello che invece oggi gli europei devono fare “è influenzare il processo postnazionale in modo democratico, impegnarsi per sviluppare le istituzioni democratiche europee e rafforzarne la legittimità, e infine esercitare tutta la loro immaginazione per creare una Repubblica d’Europa”. Lo scrive Menasse, ed è difficile non essere d’accordo.

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