03 aprile 2017 11:15

Tutto è comunicazione. E non comunicano solo le parole, anche le azioni lo fanno. Quelle pubbliche e quelle private. Quelle individuali e quelle collettive. Quelle compiute e quelle mancate.

Torino. Arrivo in treno a metà pomeriggio, con un po’ di anticipo sull’incontro a cui devo partecipare. “Poco male”, penso, “è una bella giornata e mi farò due passi sotto i portici”. E invece no: all’ingresso della stazione c’è un tipo che suona il pianoforte. Reazione emotiva: curiosità.

Un cartello dice: “Questo pianoforte è a tua disposizione, suonalo e abbine cura e rispetto come se fosse in casa tua”.

Stazione di Torino Porta Nuova. (Annamaria Testa)

Molte persone passano senza farci caso. Mi torna in mente la storia del violinista Joshua Bell che per quaranta minuti suona Bach su uno Stradivari, in una stazione della metropolitana, a Washington, e praticamente nessuno se ne accorge.

Altre persone rallentano o si fermano per un po’ ad ascoltare. Alcune si avvicinano. Perfino io, che di musica so molto meno di quanto vorrei, capisco che è un’esecuzione di buonissima qualità: è jazz, un medley di brani vellutati.

Rientro a Milano che è notte e vado a cercare di cosa si tratta. L’idea di mettere pianoforti a disposizione dei musicisti nei luoghi pubblici è venuta nel 2008 (lo stesso anno della storia di Joshua Bell) all’artista britannico Luke Jerram. Il primo esperimento si è svolto a Birmingham. Da allora, 1.700 pianoforti sono stati installati in 55 città del mondo.

L’iniziativa è stata replicata in Italia da Grandi Stazioni. Viaggio molto in treno, eppure non mi ci ero mai imbattuta. Leggo che il primo pianoforte è stato installato a Venezia. Che i pianoforti collocati nelle stazioni di Milano e Napoli sono stati distrutti (reazione emotiva: rabbia, delusione).

Un cortocircuito musicale
Su YouTube, cercando “pianoforte stazione” trovo decine di video. Infine, trovo che il cantante e pianista americano John Legend, di ritorno a Parigi, appena qualche giorno fa ha improvvisato un miniconcerto per i pendolari nella stazione di St. Pancras a Londra.

Insomma: la prossima volta che prenderò il treno lo farò con un di più di senso d’attesa, e arrivata in stazione tenderò l’orecchio. Sta di fatto che dal pianoforte torinese ho fatto fatica ad allontanarmi, un po’ per la qualità della musica, un po’ perché quella musica lì, in un non luogo frettoloso e anonimo com’è una stazione, creava uno strano cortocircuito. Come ricevere un regalo del tutto inatteso. Reazione emotiva: gratitudine.

Milano. Domenica 2 aprile si corre in città la Milano Marathon, una bella, grande e importante iniziativa benefica, con 25mila iscritti. Strade bloccate. Un fiume di gente che corre. Risalgo il flusso: guardare i corridori è uno spettacolo.

Vedo un tizio che corre a piedi nudi, con delle specie di suole appiccicate alle piante dei piedi. Molti corrono trascinando palloncini multicolori. Uno lo fa, e va veloce, spingendo una carrozzella con un invalido (reazione emotiva: commozione).

Corrono diversi anziani: tra questi, una elegante signora (capelli bianchi, ottimo taglio e pettinatura perfetta nonostante l’impegno della prestazione fisica. Da applausi). Ressa, grida e incitamenti dal pubblico. Lunghe strisce di cerotti multicolori su gambe e polpacci. Gente che zoppica, smorfie di fatica e determinazione. Reazione emotiva: sostegno, ammirazione.

Un gesto mancato a Milano
Risalgo ancora. Là dove il percorso rasenta il parco Sempione, improvvisamente e per diverse centinaia di metri la strada appare costellata da un’infinità di bottigliette di plastica.

Mi chiedo che cosa mai ci sarebbe voluto a mettere un paio di grossi contenitori per le bottiglie vuote accanto al punto di distribuzione delle bevande. Un segno di rispetto negato, un gesto mancato. Forse non tutti li avrebbero usati, ma qualcuno, santa polenta, magari sì. Reazione emotiva: fastidio, delusione. Come se non solo il prato, ma l’intera manifestazione apparisse improvvisamente sconciata dalla spazzatura.

La maratona di Milano, 2 aprile 2017. (Annamaria Testa)

Ripasso per lo stesso luogo alle quattro del pomeriggio. È tutto nuovamente e miracolosamente lindo, strada e prato. Un grosso camion dell’Amsa si sta allontanando, conclusa la scorpacciata di bottigliette. Reazione emotiva: sollievo, orgoglio. Ehi, gente, siamo a Milano!

E penso che sì, le città ci parlano. Con gli edifici e le piazze. Con i nomi delle strade. Con le istituzioni, le manifestazioni, l’arredo urbano, i prati e gli alberi. Ma anche con le mille infinitesime opportunità che vengono (o non vengono) predisposte per permetterci di compiere un gesto urbano. Ricordando che “urbano” significa “proprio della città”, ma vuol dire anche “cortese, gentile, educato”.

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