17 giugno 2019 12:51

C’è un singolo, limpido brano scritto da Gregory Bateson che ha cambiato in maniera radicale e permanente il mio modo di vedere le cose.

Mi ci sono imbattuta tanti anni fa, leggendo Mente e natura. Ve lo ricopio qui sotto, e invito voi a leggerlo con tutta l’attenzione che, credo, si merita.

Sostanze, cose, strutture o successioni di esperienze desiderate che sono in un certo senso ‘buone’ per l’organismo – regimi alimentari, condizioni di vita, temperatura, divertimenti, sesso e così via – non sono mai tali che una quantità maggiore di esse sia sempre meglio di una quantità minore.
Al contrario, per tutti gli oggetti e le esperienze esiste sempre una quantità con un valore ottimale; al di sopra di esso la variabile diventa tossica, scendere al di sotto di quel valore significa subire una privazione. Questa caratteristica dei valori biologici non si riscontra nel denaro. Il denaro ha sempre un valore transitivo: più denaro è presumibilmente sempre meglio che meno denaro; per esempio mille e un dollaro sono preferibili a mille dollari.
Per i valori biologici le cose non stanno così: più calcio non è sempre meglio che meno calcio. Vi è una quantità ottimale di calcio di cui un dato organismo può aver bisogno nella sua dieta: al di sopra di essa il calcio diventa tossico.
Analogamente, per l’ossigeno che respiriamo, per i cibi o per le componenti di una dieta e probabilmente per tutti gli elementi presenti in una relazione, il troppo è nemico del bene. Si può anche soffrire per troppa psicoterapia.
Una relazione senza conflitti è noiosa, una relazione con troppi conflitti è tossica: ciò che è desiderabile è una relazione con una quantità ottimale di conflitti. Perfino il denaro, considerato non in sé, ma nei suoi effetti su chi lo possiede, può forse, oltre un certo limite, risultare tossico. In ogni caso, la filosofia del denaro, l’insieme dei presupposti secondo cui quanto più denaro si ha tanto meglio è, è del tutto antibiologica. Nondimeno, pare che questa filosofia possa essere insegnata a cose viventi.

La notazione che Bateson fa sul denaro è tanto sottile quanto folgorante. Ma l’idea di fondo, che esista una quantità o una misura ottimale di tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e di tutto quanto desideriamo e vorremmo procurarci, è tanto semplice quanto definitiva.

Non si tratta solo della preziosa moderazione di cui parla Orazio (aurea mediocritas: dove mediocritas non significa mediocrità, ma medietà, e non ha nulla di dispregiativo), o dell’aurea via di mezzo valorizzata da Aristotele e da Confucio, dal Budda e da san Tommaso d’Aquino.

L’idea di Bateson è che un limite esista non solo in termini filosofici ed esistenziali, ma anche e soprattutto in termini fisiologici, e che sia imposto dalla finitezza stessa del nostro corpo, del nostro cervello e della nostra mente. Dal tempo che abbiamo a disposizione, dalla quantità di attenzione che possiamo esercitare. E forse, perfino, dalla felicità che siamo in grado di provare. O dalle vittorie che possiamo conquistarci senza essere travolti dall’eccesso di successo e andar fuori di zucca.

L’altra idea, strettamente intrecciata alla prima, è che il “quanto basta” sia sempre e comunque meglio per noi non solo del “troppo poco” (e questo è facile da capire) ma anche del “tanto” (che facilmente diventa “troppo”). Insomma: è il quanto basta quello che dovremmo perseguire e quello su cui dovremmo, per evitare derive tossiche, parametrare le nostre decisioni e le nostre azioni individuali e collettive.

Da questa inettitudine deriva anche il nostro essere incapaci di porre un vero argine al crescere delle disuguaglianze

Ed eccoci al motivo per cui il prezioso brano di Bateson che vi ho ricopiato mi torna in mente sempre più spesso (e, posso dirlo?, mi auguro che tornerà spesso in mente anche a tutti voi). Ho la sensazione che ci siamo persi per strada il senso stesso del quanto basta.

Da una parte, siamo immersi in un sistema così veloce e bulimico di stimoli e vantaggi che ci riesce difficile non solo scandalizzarci o preoccuparci per il troppo, ma perfino percepirne l’entità e l’impatto, il fastidio e la componente tossica. Peraltro, proprio da questa inettitudine deriva anche il nostro essere incapaci di porre un vero argine al crescere delle disuguaglianze.

Scivoliamo su piani inclinati e sembra che qualsiasi cosa non sia mai abbastanza. Quante paia di scarpe sono “troppe”? Quante puntate viste di fila di una serie televisiva sono “troppe”? Quanti messaggi su WhatsApp sono “troppi”? Quanta chirurgia estetica è “troppa”? Quante notizie ansiogene sono “troppe”? Quanta sorveglianza è “troppa”?

Il fatto vero è che il troppo trasforma ogni cosa in qualcos’altro. Perfino la meravigliosa pratica del corteggiamento, se la pressione e la vicinanza sono “troppe”, diventa stalking, così come l’attenzione esagerata alla linea diventa anoressia, le troppe promesse diventano millanterie, e le beata solitudo diventa misantropia e dannata emarginazione.

Stiamo finalmente cominciando a familiarizzare con il concetto di sostenibilità ambientale. Bene: forse potremmo accostare a quel concetto anche un’idea di sostenibilità personale, applicando il quanto basta al piccolo mondo che è ciascuno di noi.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it