07 dicembre 2020 14:22

Appena pochi mesi fa, risolta, almeno in apparenza, la crisi pandemica, è sembrato naturale a molti di noi abbandonarsi a un’allegra smemoratezza.

In sostanza: la parte più drammatica dell’emergenza sembrava proprio superata. Tornare il più in fretta possibile alle abitudini e ai comportamenti precedenti appariva non solo desiderabile, ma addirittura necessario e legittimo. Le cautele e i lutti? Acqua passata.

Così, molti di noi si sono comportati come se fare tutto esattamente come prima servisse a cancellare in maniera più rapida e definitiva il trauma sociale, economico, psicologico della pandemia. E come se in tutto ciò ci fosse, anche, una specie di compensazione per l’autocontrollo e la disciplina esercitati nei momenti più tragici e spaventosi.

È una reazione comprensibile, almeno a livello individuale (chi governa, pianifica e provvede dovrebbe invece avere uno sguardo un po’ più lucido sul futuro).

In un articolo bellissimo, uscito a maggio 2020 e meritevole di essere oggi riletto per intero, il ricercatore Vittorio Pelligra delinea le caratteristiche e i motivi di questo specifico modo di agire. Si tratta, propriamente, di esaurimento dell’Io (ego deplection).

Armarsi di pazienza
È, scrive Pelligra, “un fenomeno che determina strani comportamenti e che ci rende, per esempio dopo uno sforzo di volontà o di autocontrollo, meno capaci di esercitare le nostre capacità di giudizio e di problem solving; ci toglie lucidità e prontezza decisionale, ci rende più vulnerabili alle tentazioni e più disponibili a comportamenti controproducenti”.

Pelligra aggiunge che, secondo alcuni, questo avviene perché l’esercizio della pazienza è faticoso, e perché la nostra dotazione di autocontrollo è limitata e dopo un po’ si esaurisce. Secondo altri perché, appunto, vogliamo compensare la fatica dell’autocontrollo concedendoci, appena possibile, una dose aggiuntiva di piacere. Pelligra conclude suggerendo che, per contrastare l’ego deplection, è opportuno rafforzare le strutture valorali. E “vivere attivamente e con senso di intraprendenza, piuttosto che passivamente con rassegnazione. Il primo atteggiamento produce senso e autostima, il secondo rabbia e frustrazione”.

Un progetto da coltivare per avvicinarci in maniera attiva, intraprendente (e, aggiungo, consapevole) a un futuro abbastanza prossimo, in cui la fase più acuta dell’emergenza ci sembrerà nuovamente lontana, potrebbe proprio essere questo: riuscire ad attivare alcune strategie per non ripetere gli errori di comportamento che abbiamo fatto una manciata di mesi fa.

Dovremmo, in primo luogo, ricordarci che le crisi e le tragedie non finiscono quando lo decidiamo noi. Ci vorrà tempo.

Sarebbe opportuno prestare un’acuta, rinnovata attenzione a tutte le debolezze e le fragilità sistemiche che la pandemia ha posto in evidenza

Ci vorrà ancora tempo perché il vaccino venga distribuito (e si tratterà di un’operazione ad altissima complessità organizzativa). Tempo perché un numero sufficiente di persone venga vaccinato. Ci vorrà un tempo ulteriore per poter pensare di riaccostarci gli uni agli altri in sicurezza. Ci vorrà, infine, tempo per elaborare il trauma della pandemia se, com’è auspicabile, non sceglieremo nuovamente la scorciatoia di negarlo, rituffandoci nell’illusione fallace del business as usual.

In secondo luogo, sarebbe opportuno prestare un’acuta, rinnovata attenzione a tutte le debolezze e le fragilità sistemiche che la pandemia ha posto in evidenza. Alcuni ambiti sono ovvi: la sanità e la prevenzione, prima di tutto. Ma anche: cura degli anziani e tutela dei giovani. Le disuguaglianze. E poi: la competenza e l’affidabilità dei decisori. Le relazioni tra stato ed enti locali.

E la cosa più importante di tutte: la capacità di sviluppare progetti solidi, pensando a lungo termine. Avendo ben chiaro il fatto che, risolta l’emergenza pandemica, ci toccherà disporci ad affrontare l’ancora più complessa emergenza climatica. Anche questo tema è impossibile da affrontare in una logica di business as usual.

In terzo luogo, sarebbe interessante pensare ai molti vuoti che il covid-19 si lascerà dietro, nel momento in cui si trasformerà da pandemia in affezione endemica. Proprio come fa, terminato il nubifragio, un enorme fiume fangoso che rientra negli argini, lasciando dietro di sé una scia di desolazione.

Certo: c’è in primo luogo il vuoto lasciato da 60mila morti (a oggi). Per rendersi conto dell’enormità del numero, basta ricordare che, nel nostro paese, è stato di 153.147 il totale delle vittime civili nel corso dell’intera seconda guerra mondiale. Sapremo trovare un rito, dei gesti, dei segni adeguati?

E poi, per esempio. Che argomenti andranno a riempire l’enorme spazio che la pandemia ha occupato nell’informazione globale? Di cosa parleranno i talk show, le prime pagine dei quotidiani, gli opinionisti veri o presunti sui social network, che da un intero anno, ogni giorno, costruiscono sul covid-19 gran parte dei loro contenuti, e su questo fidelizzano oggi i loro pubblici? Sapranno trovare temi altrettanto importanti, e cruciali per il futuro (ce ne sarebbero)? O, abituati a trasmettere emozioni forti e primarie, andranno altrove a cercare dosi ulteriori di paura, di rabbia, di ansia? E noi, che siamo pubblico, sapremo scegliere bene, o cercheremo solo ulteriore alimento per le nostre emozioni?

E che cosa colmerà il vuoto di esperienze e relazioni che ragazze e ragazzi hanno affrontato e sofferto in un periodo cruciale della loro vita? Sapranno, per compensare quel vuoto, cercare esperienze significative e relazioni autentiche? Sapremo, noi adulti, facilitarli e magari (perfino) ispirarli? O, presi dai nostri problemi, li abbandoneremo ai loro?

Infine. La logica del business as usual ha un unico, grande vantaggio: maschera il vuoto di senso (lack of meaning) che a volte si insinua perfino nelle vite più vorticose, nelle feste più luccicanti, nelle città più dinamiche, negli shopping center più affollati, nel mito della crescita senza limiti.

È un vuoto di senso che, grazie al silenzio, all’isolamento e all’immobilità imposti dalla pandemia, potrebbe essere diventato più tangibile. Provare a colmarlo di una progettualità positiva, e anche di sogno e di visione, potrebbe essere una bella sfida, individuale e collettiva.

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