16 aprile 2022 09:03

Nel 2007 un gruppo di ricercatori si mise a indagare un concetto che, a prima vista, non sembra necessario approfondire: se più felicità sia sempre meglio che meno felicità. I ricercatori chiesero ad alcuni studenti universitari di valutare i propri sentimenti su una scala che andava da “infelice” a “molto felice” e confrontarono i risultati con l’andamento della loro carriera accademica (media dei voti, lezioni saltate) e con le interazioni sociali (numero di amici intimi, tempo trascorso con gli amici). I partecipanti che si ritenevano “molto felici” avevano una vita sociale migliore, ma i risultati scolastici erano inferiori a quelli di chi si era definito semplicemente “felice”.

Gli autori della ricerca esaminarono poi i dati di un altro studio che aveva classificato il livello di “allegria” di un gruppo di matricole universitarie e verificato il loro reddito quasi due decenni dopo, scoprendo che i più allegri nel 1976 non erano tra quelli che nel 1995 guadagnavano di più. Ancora una volta, questo traguardo era stato raggiunto da chi aveva descritto la propria allegria come “sopra la media”, ma non dal 10 per cento che l’aveva descritta come altissima.

Come in ogni cosa, anche per essere felici bisogna scendere a compromessi. Inseguire la felicità escludendo altri obiettivi – pratica nota come edonismo psicologico – non è solo un esercizio futile, ma può addirittura condurre a una vita che non si vuole, una vita in cui non si raggiunge il pieno potenziale, in cui c’è riluttanza a correre dei rischi e si scelgono piaceri fugaci anziché esperienze stimolanti che danno significato all’esistenza.

Ruminazione analitica
L’esito di quello studio non indica che la felicità sia da evitare, ma che un pizzico di infelicità può comportare dei benefici. Per esempio, si è scoperto che la tristezza aiuta a sviluppare la nostra abilità nel risolvere i problemi. Emmy Gut, autrice del libro Productive and unproductive depression (Depressione produttiva e depressione improduttiva) pubblicato nel 1989, sostiene che alcuni sintomi depressivi possono essere una risposta funzionale ai problemi dell’ambiente intorno a noi, risposta che ci porta a prestarvi la giusta attenzione cercando di venirne a capo. In altre parole, quando siamo tristi per qualcosa possiamo essere più propensi ad affrontare quella situazione. Gli psicologi la chiamano “ipotesi della ruminazione analitica”, ed è documentata da ricerche scientifiche.

Il disagio legato all’incertezza genera più ansia della sicurezza di ricevere cattive notizie

Ovviamente, non significa che la depressione clinica sia una cosa positiva: una tristezza estrema può condurre rapidamente le persone all’incapacità di far fronte ai problemi. E non sto dicendo che la depressione superi l’analisi costi-benefici. Ma l’ipotesi della ruminazione analitica è la prova che sbarazzarsi dei cattivi sentimenti non ci rende automaticamente più efficienti. Se queste emozioni possono aiutarci a valutare le minacce, è logico che una quantità eccessiva di buoni sentimenti può portarci a non tenerne conto. Lo suggerisce anche la letteratura sull’uso di sostanze: in alcuni soggetti, livelli molto alti di emozioni positive sono stati collegati a comportamenti pericolosi come l’abuso di alcol e droghe o il binge eating (cioè l’alimentazione incontrollata).

Rifiutare l’infelicità può farci rinunciare a una vita piena. Infatti, come rivela un sondaggio condotto nel 2018 tra gli studenti universitari, la paura di fallire è correlata positivamente al senso profondo attribuito al romanticismo, all’amicizia e (in misura minore) alla famiglia. Quando parlo con qualcuno del timore di ottenere risultati negativi nella vita, la vera origine della sua paura in molti casi è legata a come si sentirà per aver fallito, non alle conseguenze del fallimento stesso, dinamica che somiglia al meccanismo per cui il disagio legato all’incertezza genera più ansia della sicurezza di ricevere cattive notizie. Per evitare queste sensazioni spiacevoli, le persone rinunciano a tutte le occasioni che implicano la possibilità di un fallimento.

Decisioni sgradevoli
Fare spazio a degli eventi positivi – come l’amore, il successo professionale o altro – di solito comporta dei rischi. Il rischio non ci rende per forza felici, e una vita rischiosa ci porterà delle delusioni. Ma può anche essere più gratificante di una vita che punta sempre sul sicuro, come suggerisce lo studio sulla felicità, i risultati accademici e il reddito. Chi ha ottenuto le performance migliori sul lavoro e a scuola probabilmente ha preso delle decisioni che a volte sono state sgradevoli, e perfino spaventose.

Questo non vuol dire che dobbiamo rifuggire da ciò che ci fa stare bene, o che siamo degli sciocchi perché vogliamo essere felici. Al contrario, desiderare la felicità è naturale e normale. Tuttavia, avere come principale o unico obiettivo nella vita la ricerca dei sentimenti positivi – e tentare in ogni modo di evitare quelli negativi – è una strategia costosa.

La felicità assoluta è impossibile da raggiungere (almeno su questa Terra), e inseguirla può essere pericoloso e deleterio per il nostro successo. Ma soprattutto, così facendo si sacrificano molti degli elementi che rendono la vita soddisfacente. Come ha scritto Paul Bloom, psicologo e autore di The sweet spot: The pleasures of suffering and the search for meaning (Il punto debole. I piaceri della sofferenza e la ricerca di senso): “È la sofferenza che scegliamo a offrirci le maggiori occasioni di gioia, senso e crescita personale”.

La felicità stessa non sarebbe tale se mancasse il contrasto che inevitabilmente sperimentiamo con la tristezza. “Una vita felice non può esistere senza una misura di oscurità”, disse Carl Jung in un’intervista del 1960. “La parola ‘felice’ perderebbe il suo significato se non fosse controbilanciata dalla tristezza”. Si può fare tesoro delle parole di Jung e impegnarsi a praticare regolarmente la gratitudine, ringraziando per le cose che procurano felicità e anche per quelle che creano difficoltà. All’inizio sembrerà innaturale, ma diventerà ogni giorno più semplice.

Alcuni degli aspetti più importanti della nostra vita sono il risultato diretto di sentimenti negativi che sono riusciti a intrufolarsi dentro di noi nonostante i nostri sforzi per bloccarli. Per esempio, ho tre figli ormai grandi: fino a poco tempo fa, quando erano adolescenti, con loro era un continuo testa a testa. All’epoca mia moglie e io abbiamo perso molte notti di sonno, ma non cambierei nemmeno un dettaglio di quei momenti (ora che ce li siamo lasciati alle spalle).

C’è chi porta questi insegnamenti a degli estremi che potrebbero sembrare inconcepibili. Per esempio Andrew Solomon, autore di Il demone di mezzogiorno. Depressione: la storia, la scienza, le cure, che scrive: “Se immaginiamo un’anima di ferro logorata dal dolore e corrosa dal disturbo depressivo minore, potremmo paragonare la depressione maggiore a un vero e proprio cedimento strutturale”. Ma alla fine Solomon ha scoperto un modo per apprezzare la propria depressione, come ha dichiarato in un’intervista diversi anni fa: “La amo perché mi ha costretto a trovare la gioia e ad aggrapparmici”.

È questo, in poche parole, il paradosso di una vita piena. Perseguire una positività senza fine significa puntare alla bidimensionalità di un film hollywoodiano o di un libro per bambini. Quindi, anche se la sofferenza non dovrebbe mai essere il nostro obiettivo, possiamo lottare per una vita ricca dove non cerchiamo unicamente il sole, ma sperimentiamo appieno anche l’inevitabile pioggia.

(Traduzione di Davide Musso)

Questo articolo è uscito sul sito del mensile statunitense The Atlantic.

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