09 dicembre 2015 14:53

In vita mia ho conosciuto quattro tipi di passione amorosa. Quella suscitata da una persona, quella provocata da un animale, quella generata da una creazione storica dello spirito (libro, opera d’arte, musica e persino istituzione) e quella scatenata da una città. Mi sono innamorato di una manciata di persone, di cinque animali, di un centinaio di libri e di opere, di un museo e di tre città.

Che si tratti di città, di persone, di animali e persino di dispositivi dello spirito, il rapporto tra la felicità e l’amore non è direttamente proporzionale. È possibile essere felici in una città, come è possibile stabilire una relazione soddisfacente con qualcuno (che sia un essere umano o un animale) o di stabilire un legame strumentale o pedagogico con un’opera, senza per questo esserne innamorati. Non sono né l’origine, né il tempo trascorso, né la residenza che determinano la possibilità di un amore urbano.

La città amata non coincide né con l’eredità, né con il sangue, né con la terra, né con il successo, né con il beneficio. La città in cui sono nato, per esempio, evoca in me sentimenti multipli, ma nessuno di questi si cristallizza in forma di desiderio. Dall’altra parte New York, dove ho passato otto dei più importanti anni della mia vita, è stata per me una città costitutiva, eppure non me ne sono mai innamorato. Siamo stati intimi per un certo periodo, talvolta amici e altre volte nemici, ma non siamo mai stati appassionatamente innamorati.

Innamorarsi di una città significa sentire, quando la si percorre, che si dissolvono i limiti materiali tra il tuo corpo e le sue strade

Il primo stadio dell’amore urbano è quello cartografico: ha luogo quando senti che la mappa della città amata si sovrappone a qualsiasi altra. Innamorarsi di una città significa sentire, quando la si percorre, che si dissolvono i limiti materiali tra il tuo corpo e le sue strade, quando la mappa diventa anatomia. Il secondo stadio è quello della scrittura. La città prolifera in tutte le forme possibili del segno, si fa innanzitutto prosa, poi poesia, per divenire infine vangelo.

Mi ricordo di come mi sono innamorato di Parigi, durante il primo inverno del nuovo millennio. Arrivavo da New York e mi trasferivo lì per assistere ai seminari di Derrida all’Ehess (Scuola di studi superiori in scienze sociali). All’epoca facevo una ricerca sui rapporti tra il femminismo, la teoria queer e la filosofia post-strutturalista francese. Sono andato direttamente a Nantes, al festival New York fin de siècle, al quale partecipavano vari miei amici newyorchesi della scena letteraria. Avendo imparato il francese leggendo Rousseau, Foucault e Derrida, ma non avendolo mai parlato nella realtà, avviare una conversazione mi sembrava difficile come se avessi dovuto farlo in latino.

Preso da questa nebulosa linguistica che la ricezione di una lingua ancora incomprensibile suscita nel cervello, scambiavo alcune parole con il disegnatore Bruno Richard. Non so più come sia stato sintatticamente o semanticamente possibile, ma abbiamo finito per parlare di vibratori e protesi sessuali. Con un accordo essenzialmente composto di “oui” e “merci”, ho accettato le chiavi dell’appartamento di Richard a Parigi per trascorrervi la mia prima settimana in città: da quel che pensavo di aver capito, lui non sarebbe stato in casa.

Il mio ingresso nel suo appartamento fu degno di una scena di un film di Dario Argento: aprendo la porta scoprivo uno studio pieno di arti mozzati e sanguinolenti. Mi sono occorsi cinque lunghi e penosi minuti prima di capire che si trattava di manichini e che il sangue era pittura rossa. Richard mi aveva fatto uno scherzo, mettendo alla prova l’ontologia della protesi di cui avevamo parlato, senza parole, a Nantes. Naturalmente non sono potuto restare in quell’appartamento. Ma questa scena inaugurale doveva segnare per sempre il mio rapporto con la città: Parigi è una città-protesi, al contempo organo vivente e teatro.

Culturalmente deserta, trasformata in città-merce per il consumo dei turisti, Barcellona non è stata un colpo di fulmine

In seguito, Parigi è diventata la protesi del focolare che non ho mai avuto. Lasciato l’appartamento-teatro di Richard ho chiamato l’unica persona che conoscevo: Alenka Zupančič, una filosofa slovena della scuola di Slavoj Žižek e Mladen Dolar, che avevo conosciuto alla New School di New York. Ho finito per stabilirmi da lei, un luogo dove si parlava sloveno e serbocroato, dove veniva citato Nietzsche in tedesco, Lacan in francese e Plechanov in russo e dove si beveva vodka a colazione per tenere lontane le ipocrisie. È lì che mi sono innamorato di Parigi. Una Parigi-lingua inventata per i nomadi e i traduttori poliglotti.

Alcuni anni dopo, ho amato Barcellona. L’ho fatto un po’ di nascosto, come qualcuno che piano piano sprofondi nell’infedeltà. Culturalmente deserta, trasformata in città-merce per il consumo dei turisti, lacerata dalle tensioni tra il nazionalismo catalano e lo spagnolismo, tra la storia anarchica e l’eredità piccolo-borghese, tra il dinamismo dei movimenti sociali e il persistere della corruzione come unica architettura istituzionale, Barcellona non è stata un colpo di fulmine.

Parigi era mia moglie, Barcellona è progressivamente diventata la mia amante. La vita mi allontana da queste due città e mi conduce in una decina d’altre. Oggi, senza averlo previsto, m’innamoro di Atene. Noto una pulsazione nuova nel mio petto quando, da Beirut o da Dublino, penso ad Atene. Oggi che non ho più casa, né alcuna proprietà, e neppure un cane, mi rendo conto che mi viene offerto il più grande dei privilegi: essere corpo e potermi innamorare di nuovo di una città.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano francese Libération.

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