27 gennaio 2016 11:19

Alan è morto a Barcellona il giorno dopo Natale. Era un ragazzo trans di 17 anni. Era stato uno dei primi minorenni a ottenere un cambio di nome su un documento d’identità in Spagna. Ma quel certificato nulla ha potuto contro il pregiudizio. La legalità del nome non ha potuto opporsi alla forza di quanti si sono rifiutati di usarlo. La legge nulla ha potuto contro la norma. Le scene di molestia e intimidazione che ha subìto per tre anni a scuola hanno piegato la sua fiducia nel poter vivere, spingendolo al suicidio.

Si potrebbe dire che la morte di Alan sia stata un incidente drammatico ed eccezionale. Ma non c’è niente d’accidentale: oltre la metà degli adolescenti trans e omosessuali dichiara di essere stata oggetto di aggressioni fisiche e psicologiche negli istituti scolastici. E non c’è niente di straordinario: è proprio tra gli adolescenti trans e omosessuali che si registra il più alto tasso di suicidi.

La scuola è una fabbrica di piccoli macho e di checche, di carine e di grasse, di furbi e di scemi

Com’è stato possibile che la scuola sia stata incapace di proteggere Alan dalla violenza? La risposta è semplice: la scuola è il primo luogo in cui si apprende la violenza di genere. Non solo il liceo di Alan non l’ha protetto, ma ha creato le condizioni del suo assassinio sociale.

La scuola è un campo di battaglia dove i bambini arrivano armati solo dei loro fragili corpi e del loro futuro da scrivere, un teatro di guerra dove si affrontano il passato e la speranza.

La scuola è una fabbrica di piccoli macho e di checche, di carine e di grasse, di furbi e di scemi. La scuola è il primo fronte di questa guerra civile: il luogo dove s’impara a dire che noi maschi non siamo come loro, le femmine. Il luogo dove vincitori e vinti sono marchiati con un segno che finisce per diventare il loro volto.

La scuola è un ring dove il sangue si confonde con l’inchiostro e dove chi è capace di versarli è premiato. L’unica lingua che si parla è quella della violenza sorda e segreta della norma. Alcuni di loro, come Alan, senza dubbio i migliori, non sopravviveranno. Non potranno partecipare a questa guerra.

La scuola non è solo un luogo d’apprendimento di contenuti. È una fabbrica di soggettivizzazione: un’istituzione disciplinare il cui obiettivo è la normalizzazione del genere e della sessualità.

In essa ogni allievo deve esprimere un solo genere, definitivo: quello che gli viene attribuito alla nascita. Quello che corrisponde alla sua anatomia. Il liceo incoraggia e valorizza la teatralizzazione convenzionale dei codici della sovranità maschile e della sottomissione femminile, e allo stesso tempo sorveglia il corpo e i suoi movimenti, punendo e patologizzando ogni forma di dissidenza.

I compagni di Alan esigevano che sollevasse il maglione per far vedere che non aveva seno. Lo insultavano, lo chiamavano lesbica schifosa, si rifiutavano di chiamarlo Alan. Non si è trattato d’incidente, ma di pianificazione concordata e finalizzata a punire un dissidente. Le istituzioni hanno fatto il loro dovere: marchiare a fuoco chi mette in discussione l’epistemologia del genere.

Sovranità maschile

La scuola moderna, come struttura d’autorità e di riproduzione gerarchica del sapere, è ancora il prodotto di una definizione patriarcale della sovranità maschile. In fin dei conti è da poco che le donne, le minoranze sessuali, le persone non bianche o diversamente abili vi hanno accesso: cento anni per le donne, cinquanta o addirittura venti per la segregazione razziale, e appena una decina per i diversamente abili.

Al compito principale di fabbricare la virilità nazionale si aggiungono quelli di modellare la sessualità femminile, marcare la differenza razziale, di classe, religiosa, funzionale o sociale.

Parallelamente all’epistemologia della differenza di genere (che ha oggi nelle nostre istituzioni il posto che aveva il dogma della natura divina di Cristo nel medioevo), la scuola funziona secondo un’antropologia essenzialista. L’idiota è un idiota, la checca è una checca. La scuola è uno spazio di controllo e dominazione, di esame minuzioso, diagnosi e sanzione. Presuppone un soggetto unico e monolitico, che deve imparare ma che non può e non deve cambiare.

Allo stesso tempo, la scuola è la più brutale e passiva scuola di eterosessualità. Apparentemente asessuali, le scuole medie superiori valorizzano e fomentano il desiderio eterosessuale e la teatralizzazione corporale e linguistica dei codici dell’eterosessualità normativa.

Ecco alcuni possibili nomi delle materie insegnate negli stabilimenti scolastici: “principi di maschilismo”, “introduzione allo stupro”, “laboratorio pratico d’omofobia e transfobia”. Un recente studio condotto in Francia ha mostrato che gli insulti più utilizzati dagli allievi, perché considerati più offensivi, sono pédé (finocchio) per i ragazzi e salope (puttana) per le ragazze.

Per farla finita con questa scuola assassina è necessario stabilire dei nuovi protocolli di prevenzione dell’esclusione e della violenza di genere in tutti gli stabilimenti scolastici. Non penso al sogno umanista di una scuola inclusiva (e al suo motto “tolleriamo la differenza e tolleriamo il malato affinché si adatti”).

Pedagogia queer

Al contrario occorre degerarchizzare e denormalizzare la scuola, introdurre eterogeneità e creatività nei suoi processi istituzionali. Il problema non è la transessualità, ma la relazione costitutiva tra pedagogia, violenza e normalità. Non era Alan a essere malato. È l’istituzione, è il liceo a essere malato e a dover essere curato, sottoponendosi a un processo che potremmo chiamare, riprendendo Francesc Tosquelles e Felix Guattari, “di terapia istituzionale”.

Per salvare Alan ci sarebbe voluta una pedagogia queer in grado di confrontarsi con l’incertezza e con l’eterogeneità, di concepire la soggettività sessuale e quella di genere come processi aperti e non come identità chiuse.

Di fronte a una scuola assassina è necessario creare una rete d’istituti in fuga, una trama di scuole trans-femministe-queer che accolgano i minori vittime d’esclusione e di molestie nelle loro scuole, ma anche tutti i bambini che preferiscono la sperimentazione alla norma.

Questi spazi non sarebbero sufficienti, ma diventerebbero dei rifugi dove i bambini e gli adolescenti sarebbero protetti dalla violenza istituzionale. A New York, per esempio, nel 2002 è stato aperto il liceo Harvey Milk (in omaggio all’attivista gay assassinato nel 1978 a San Francisco), che accoglie 110 studenti queer e trans che sono stati vittime di molestie e d’esclusione nelle scuole che frequentavano in precedenza.

Voglio immagine un’istituzione educativa più attenta alla singolarità dell’allievo che alla preservazione della norma. Una scuola microrivoluzionaria dove sia possibile favorire una moltitudine di processi di soggettivizzazione individuale. Voglio immaginare una scuola nella quale Alan sarebbe potuto rimanere vivo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato su Libération.

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