23 marzo 2016 20:09

Negli ultimi mesi ogni risveglio mi trasforma in Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi di Franz Kafka. Questa presa di coscienza suscita in me molti dubbi sulla stabilità delle relazioni tra l’interno e l’esterno. Dove? In quale corpo? Questi due interrogativi diventano chiaramente kafkiani nel momento in cui sono accompagnati dalla certezza che il “dove” non è unicamente una questione di contesto esterno, così come il corpo non può essere ridotto allo spazio coperto dalla pelle.

Il letto a forma di barca, a immagine di quello costruito dall’architetto e fotografo Carlo Mollino nel suo studio segreto di Torino, conduce l’anima attraverso gli inferi e si trasforma in piattaforma metafisica, nella quale il passaggio dalla veglia al sonno attiva un processo di viaggio dal quale il dormiente esce potenzialmente trasformato.

Scorro i miei quaderni d’appunti e calcolo che negli ultimi sei mesi non ho mai dormito più di dieci giorni consecutivi nello stesso letto. Ho visitato non meno di 33 piattaforme mutanti. Ci sono stati letti urbani e altri rurali, letti d’ospedale con materassi ricoperti di plastica e con meccanismi che sollevavano le gambe o la testa, letti d’albergo rifatti in maniera impeccabile e letti di Airbnb con cuscini morbidi e lenzuola a fiori, ci sono stati sedili d’aereo molto stretti e dure panchine di stazione usati come letti, letti pieghevoli e divani letto, letti con zanzariera e altri con piumini doppi, letti continentali e insulari, letti del nord e del sud, letti troppo alti e materassi stesi a terra, letti dell’est e dell’ovest, letti neoliberisti e letti postcomunisti, letti della crisi e letti del plusvalore. E poi, regolarmente, il letto masai.

Metamorfosi planetaria

Accanto a un letto nel quartiere sudovest di Dublino, trovo la biografia di Gandhi, un grande specialista della conversione del pavimento in letto. Gandhi parla di usare la propria modesta vita come un campo di sperimentazione il cui obiettivo è trasformare l’essere umano: sperimenta con il cibo e l’istruzione, la lettura e la scrittura, il sogno e la veglia, il camminare e la danza, l’oscurità e la luce, la paura e il coraggio. Penso al mio processo transgender e al viaggio come due esperienze sulla soggettività. Niente di quel che mi accade è eccezionale. Faccio parte di una metamorfosi planetaria. È giunto il momento di reinventare tutto. Siamo, su scala globale, la civiltà Gregor Samsa. Lo spostamento e la mutazione, volontari o forzati, sono divenuti condizioni universali della specie.

L’architettura di Constant doveva rispondere alla società del dopoguerra che si faceva nomade

In piazza Victoria, nel centro d’Atene, osservo il modo in cui centinaia di profughi improvvisano letti fatti di cartone e coperte, in un giardino senza erba. Produciamo una nuova forma di nomadismo necropolitico che combina gigantesche installazioni urbane con un flusso sempre più importante di corpi e merci. Più di sessanta milioni di persone provenienti da Azerbaigian, Kashmir, Costa d’Avorio, Siria, Afghanistan, Palestina e altrove hanno dovuto lasciare il loro letto per sfuggire alla fame o ai conflitti armati. È una delle conseguenze della guerra capitalistica che colpisce tutto il pianeta.

In un’anonima stanza d’hotel sogno nuovamente alcune immagini che ho visto, alcuni giorni prima al museo Reina Sofia di Madrid, nella mostra dedicata all’architetto e artista olandese Constant. Ispirandosi al modo di vivere delle comunità gitane d’Europa, Constant ha immaginato il progetto Nuova Babilonia tra il 1956 e il 1974. Per Constant l’architettura della Nuova Babilonia doveva rispondere alla società del dopoguerra che si faceva nomade e il movimento fisico doveva aumentare le possibilità di trasformazione soggettive e politiche.

È per questo che Constant decretava che nella nuova Babilonia non c’erano “edifici” nel senso tradizionale del termine, ma un immenso e unico tetto comune che accoglieva una moltitudine di forme di vita, coprendolo sotto un’ampia corazza mutevole che permette al contempo la libertà di movimento e l’interconnessione. Constant ha inventato un’architettura alla Gregor Samsa, fatta per una civiltà postraumatica che deve inventare una nuova forma di vita dopo la guerra.

Nel 1958 Constant credeva già nell’automazione del lavoro e nella generalizzazione del gioco e dei suoi spazi come forze di trasformazione sociale. A metà degli anni settanta, con la fine dei movimenti femministi, della rivoluzione sessuale e operaia e la fine dell’utopia comunista, Constant abbandonò ogni speranza di realizzare il suo progetto e decise di lasciarlo riposare in un museo, “in attesa di tempi più propizi che vedranno il risveglio dell’interesse degli urbanisti”. In seguito sarebbero venuti l’apogeo del neoliberismo, l’espansione delle tecniche d’estrazione e di produzione ecodistruttrice, la guerra generalizzata e così via.

È venuto il momento di tirare Constant fuori del museo e inventare un’altra Babilonia. Immagino i profughi di piazza Victoria che creano un’altra società sotto un tetto mutante, immagino il diffondersi del calore, del suono, l’eco di mille conversazioni e vorrei poter dormire in un letto di quest’altra Babilonia. E mi chiedo: che aspetto avranno i letti, laggiù?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.

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