17 maggio 2016 17:54

Sono state dette molte cose a proposito delle similitudini tra la gestione dell’attuale crisi economica e il periodo precedente la seconda guerra mondiale. È probabile che nel 2008 gli orologi del tempo globale si siano misteriosamente sincronizzati con quelli del 1929. Ma la cosa più curiosa è che da allora non stiamo procedendo verso gli anni trenta, bensì regredendo verso l’inizio del novecento, come se in un ultimo delirio malinconico l’Europa volesse rivivere il suo passato coloniale.

L’errore che commettiamo abitualmente quando cerchiamo di comprendere la crisi politico-economica è guardarla attraverso la concezione spazio-temporale tipica degli stati nazionali di quella che consideriamo attualmente come “Europa” nel loro rapporto con gli Stati Uniti, lasciando fuori dalla nostra prospettiva lo spazio-tempo che va oltre il qui e ora della finzione “Europa”, verso il sud e l’est, in relazione con la sua storia e il suo presente “criptocoloniale”, per dirla con Michael Herzfeld.

Scambio asimettrico

Solo tornando alla storia dell’invenzione degli stati-nazione europei e del loro passato coloniale possiamo comprendere l’attuale gestione della crisi dei profughi in Grecia. Com’è noto, il 18 marzo l’Unione europea (Ue) e la Turchia hanno firmato un accordo sulla deportazione in massa dei profughi. Questo accordo stabilisce delle relazioni di scambio politico tra due entità asimmetriche (Ue e Turchia) con tre variabili profondamente eterogenee: corpi umani (vivi, nel migliore dei casi), territorio e denaro.

Da una parte l’accordo stipula che, a partire da tale data, “tutti gli immigrati e i profughi arrivati irregolarmente in Grecia devono essere immediatamente espulsi verso la Turchia, che s’impegna ad accettarli in cambio di denaro”. D’altra parte “gli europei prendono l’impegno di accogliere sul proprio territorio i profughi siriani che si trovano in Turchia, fino a un massimo di 72mila persone”. Basta parlare qualche minuto con i siriani che hanno raggiunto la Grecia per capire che torneranno in Turchia solo se costretti con la forza.

Inevitabilmente, l’agente che rende possibile questo processo di deportazione di massa e “scambio di popolazioni” è la violenza. Una violenza istituzionale che, nel quadro di relazioni internazionali tra entità statali e sovranazionali teoricamente democratiche, prende il nome di “forze di sicurezza”. L’accordo costerà trecento milioni di euro nei prossimi sei mesi, prevede l’intervento di quattromila funzionari degli stati membri e delle agenzie di sicurezza europee Frontex ed Easo, richiede l’invio di forze militari e d’intelligence da paesi come la Germania, la Francia e la Grecia, oltre che la presenza di funzionari greci in Turchia e di funzionari turchi in Grecia.

Questo violento apparato poliziesco è presentato come “un’assistenza tecnica alla Grecia”, un aiuto necessario alle “procedure di ritorno”. L’unico quadro politico che permette di considerare legale una simile marchiatura, reclusione, criminalizzazione ed espulsione di essere umani è la guerra. Ma allora contro chi sono in guerra l’Europa e la Turchia?

Europa e Turchia dichiarano guerra ai popoli migranti che potrebbero attraversare le loro frontiere

Sebbene questo accordo appaia, sia per gli elementi dello scambio (corpi umani vivi) sia per la sua portata (almeno due milioni di persone), più vicino a Il trono di spade che a un patto tra due stati democratici, esiste un precedente storico che alcune famiglie greche e turche conoscono bene. In Grecia questo precedente è noto come “Grande catastrofe” e ha avuto luogo durante e dopo la guerra greco-turca, tra il 1922 e il 1923.

Nel 1830, dopo quattrocento anni di dominazione ottomana e una guerra d’indipendenza perduta, il territorio della Grecia attuale era ancora sotto il dominio dei turchi, mentre solo una piccola parte era riconosciuta come stato greco da Francia, Regno Unito e Russia. Dopo la prima guerra mondiale la caduta dell’impero ottomano ha ridestato il sogno nazionalista greco (chiamato “megali idea”, la “grande idea”) di riunificare tutti i territori “bizantini”. Un progetto svanito con la vittoria della Turchia nella guerra combattuta tra il 1919 e il 1922.

Per costruire la nuova finzione degli stati-nazione, tanto greca quanto turca, fu necessario non solo dividere i territori, ma anche e soprattutto ricodificare in senso nazionale corpi le cui vite e i cui ricordi erano fatti di storie e lingue ibride. Il trattato sullo “scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia” fu firmato a Losanna nel 1923. Riguardava due milioni di persone: un milione e mezzo di “greci” che vivevano in Anatolia e mezzo milione di “turchi” che vivevano nei territori greci. La presunta “nazionalità” venne infine ridotta alla religione: i cristiani ortodossi furono mandati in Grecia, i musulmani in Turchia. Molti di questi “profughi” furono sterminati, altri furono trasferiti in campi precari dove rimasero per decenni, con una cittadinanza incerta.

Quasi cento anni dopo questi stessi stati-nazione, la cui capacità d’azione economica è stata fortemente indebolita dalla riorganizzazione globale del capitalismo finanziario, sembrano orchestrare un nuovo processo di costruzione nazionalista, riattivando (ancora una volta contro i civili) i protocolli di guerra, riconoscimento ed esclusione della popolazione con cui si erano costruiti in passato.

Europa e Turchia dichiarano oggi guerra ai popoli migranti che potrebbero attraversare le loro frontiere. È questa la sensazione che si prova percorrendo le strade di Atene, tra gli edifici occupati dai profughi e le centinaia di persone che dormono nelle piazze: una guerra civile contro coloro che, dopo essere sfuggiti a un’altra guerra, cercano di sopravvivere.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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