19 ottobre 2016 14:43

È la prima volta in oltre due anni che posso definire mia la casa in cui vivo ad Atene. Non la possiedo. Non è necessario. Ne ho l’uso, semplicemente. Ne faccio l’esperienza. La celebro. Dopo essere passato da tre case in vie e quartieri differenti – Philopapou, Neapoli, Exarchia – e da una decina d’alberghi, dei quali conservo soprattuto il ricordo degli uccelli che cantavano al mattino sulla collina di Strefi, nell’hotel Orion, mi sono finalmente deciso, non senza difficoltà, a firmare un contratto d’affitto.

Per oltre un mese ho vissuto in questa casa vuota. Senza mobili, una casa non è altro che una porta, un tetto e un pavimento. A causa di un ritardo nella consegna del letto (fatto abituale in Grecia), sono stato costretto a dormire per due settimane in un appartamento completamente vuoto.

Durante la notte le mie anche si schiacciavano contro il legno e mi svegliavo tumefatto. Non c’è dubbio che si tratti di un’esperienza inaugurale ed estetica: un corpo, uno spazio. Mi è capitato di svegliarmi alle tre del mattino e di chiedermi, sdraiato a terra, se fossi un essere umano o un animale, in questo secolo o in un altro, se esistevo davvero o se ero solo materiale di finzione. La casa vuota è il museo terrestre del ventunesimo secolo e il mio corpo – senza nome, mutante e senza padrone – è l’opera.

Studio di registrazione
In una casa vuota diventa evidente che lo spazio domestico rappresenta una scena nella quale la soggettività è esposta come un’opera. Paradossalmente, ognuna di queste è esibita all’interno di una scena privata. “Detesto il pubblico”, diceva il pianista Glenn Gould. Nel 1964, a 32 anni, al vertice della sua carriera, ha abbandonato le sale da concerto, ritirandosi per sempre in uno studio di registrazione nel quale suonare. Una casa vuota è un po’ questo: uno studio dove registrare la vita. Con la piccola differenza che la nostra soggettività è al contempo la musica, lo strumento e la tecnica di registrazione.

Attraversare le frontiere con un passaporto che mi rappresentava a malapena era un modo di materializzare il transito

Ho inizialmente creduto che se l’appartamento fosse rimasto vuoto, la cosa dipendesse dalla coincidenza di diverse circostanze: eccesso di lavoro, mancanza di tempo, mancanza di proprietà che potevano essere accumulate in questo spazio. Ho solo alcuni vestiti (jeans Apc, camicie bianche o blu, giacca di feltro, scarpe nere), l’indispensabile valigia, qualche libro e tre dozzine di quaderni, che in sé costituiscono una scultura indipendente nello spazio, l’indicatore di una sorta di culto, a meno che non si tratti di una patologia.

Mi è servito del tempo per rendermi conto che la ragione per la quale mantenevo vuoto questo spazio non era casuale: ho stabilito una relazione sostantiva tra il mio processo di transizione di genere e il mio modo di abitare lo spazio. Nel corso del primo anno di transizione, mentre i cambiamenti ormonali scolpivano il mio corpo come un microscopico strumento da intaglio che agiva dall’interno, non potevo che vivere da nomade. Attraversare le frontiere con un passaporto che mi rappresentava a malapena era quindi un modo di materializzare il transito, di rendere visibile il trasloco.

Potenziale politico dell’analogia
E oggi, per la prima volta, posso fermarmi. A condizione che questa casa resti vuota: sospendendo le convenzioni tecnoborghesi del tavolo, del sofà, del letto, del computer o della sedia. Il corpo e lo spazio si confrontano senza mediazione. Allora, uno di fronte all’altro, lo spazio e il corpo non sono degli oggetti, bensì delle relazioni sociali.

Il mio corpo trans è una casa vuota. Sfrutto il potenziale politico di questa analogia. Il mio corpo trans è un appartamento in affitto, senza alcun mobile, un luogo che non m’appartiene, uno spazio senza nome: aspetto ancora il diritto di essere chiamato dallo stato, aspetto e temo la violenza dell’essere nominato.

Abitare una casa completamente vuota restituisce a ciascun gesto il suo carattere inaugurale, conserva il tempo della ripetizione, sospende la forza interpellante della norma. Mi vedo correre nella casa, o camminare in punta di piedi mentre mangio, steso sul pavimento coi piedi appoggiati al muro per leggere oppure appoggiato contro il davanzale della finestra per scrivere.

La disabitudine si estende agli altri corpi che penetrano questo spazio: quando lei viene a farmi visita non possiamo fare quasi nient’altro che guardarci, rimanere in piedi tenendoci la mano, sdraiarci o fare l’amore.

La bellezza di questa singolare esperienza che potremmo definire “disarredamento” mi spinge a chiedermi perché ci obblighiamo ad arredare le case, perché sia necessario conoscere il nostro genere, quale sesso ci attiri. L’Ikea sta all’arte di abitare come l’eterosessualità normativa sta al corpo che desidera. Un tavolo e una sedia formano una coppia complementare che non ammette discussioni. Un armadio è un primo certificato di proprietà privata. Una lampada accanto al letto è un matrimonio di convenienza. Un sofà di fronte alla televisione è una penetrazione vaginale. La tenda che pende sopra la finestra è la censura antipornografica che si alza al calar del sole.

L’altro giorno, mentre facevamo l’amore in questa casa vuota, lei mi ha chiamato con il mio nuovo nome e mi ha detto: “Il problema è il nostro spirito. I nostri spiriti lottano, ma le nostre anime e i nostri corpi sono in perfetta armonia”. Qualche minuto più tardi, mentre il mio petto si apriva per respirare qualche atomo d’ossigeno in più e la mia corteccia cerebrale prendeva la consistenza del cotone, ho sentito che il mio corpo si dissolveva nello spazio vuoto, e che il mio spirito, autoritario e normativo, quasi morto, si arrendeva di fronte al mio spirito.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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