11 aprile 2014 07:00

L’elemento nuovo rispetto al passato sono le critiche sempre più esplicite rivolte dagli Stati Uniti a Israele, a cui Washington rimprovera di ostacolare il processo di pace rilanciato a luglio. Al momento gli americani, gli israeliani e soprattutto i palestinesi non hanno alcuna intenzione di prendere l’iniziativa e abbandonare il tavolo delle trattative, ma resta il fatto che il negoziato è chiaramente bloccato. Se le cose non cambieranno Israele perderà l’occasione di trovare una soluzione definitiva, mentre i palestinesi rischiano di ritrovarsi in un’impasse politica totale che potrebbe portare a una nuova esplosione di violenza.

Dopo mesi di esitazioni, la situazione ha cominciato a precipitare lo scorso 29 marzo, quando gli israeliani si sono rifiutati di rispettare gli impegni presi e liberare il quarto e ultimo contingente di prigionieri palestinesi. L’obiettivo di Israele era quello di fare pressione sul presidente palestinese Abu Mazen per spingerlo ad accettare un prolungamento della trattativa che dovrebbe concludersi alla fine di aprile, ma Abu Mazen ha risposto chiedendo l’inclusione della Palestina, riconosciuta dall’Onu come stato osservatore nel 2012, in una quindicina di convenzioni e trattati internazionali nonostante in precedenza si fosse impegnato a non farlo in cambio dell’apertura dei negoziati in corso.

La contro reazione israeliana è stata quella di congelare tutti i contatti con i palestinesi al di fuori del processo di pace. Il 10 aprile Israele ha improvvisamente deciso di sospendere la consegna ai palestinesi dei diritti doganali che riscuote per suo conto, circa 80 milioni di euro al mese essenziali per pagare i funzionari palestinesi.

Siamo evidentemente arrivati al punto di rottura. Mentre si continua a cercare un compromesso, martedì il segretario di stato statunitense John Kerry ha sottolineato le responsabilità israeliane per il degrado della situazione.

Mai prima d’ora gli Stati Uniti si erano mostrati così irritati dal comportamento del loro alleato israeliano, a cui continuano a fornire aiuti militari per oltre tre miliardi di dollari all’anno. I rapporti tra i due paesi sono ai minimi storici, anche perché la destra israeliana al potere ha deciso di correre i rischi legati a un isolamento crescente, convinta che la creazione di uno stato palestinese costruirebbe una minaccia inaccettabile per la sicurezza del paese.

È un punto di vista, ma allo stesso tempo se il negoziato dovesse davvero fallire Israele diventerebbe di fatto uno stato binazionale al cui interno gli israeliani rappresenterebbero presto una minoranza. Si tratta di un rischio più che ipotetico, ma la destra israeliana continua per la sua strada anche se al momento i palestinesi sono indeboliti dal fermento del mondo arabo e dunque Israele potrebbe facilmente imporre un accordo alle sue condizioni.

Difendendo questa linea suicida Israele sta commettendo un errore storico enorme che potrebbe avere conseguenze pericolose anche nell’immediato. Se gli americani non riusciranno in qualche modo a salvare il dialogo, infatti, potremmo assistere a una nuova esplosione di violenza e all’ascesa degli estremisti palestinesi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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