21 febbraio 2016 10:41

Più ci giriamo intorno, più serialmente ci riscopriamo a tornare a quest’idea che in fondo la letteratura non sia altro che un modo per provare a occupare lo spazio della perdita, rendere abitabile un tempo altrimenti inammissibile; quasi che alle volte dovendo far la scelta – di che libro leggere, di cosa interessarsi, di cosa valga la pena davvero parlare – la nostra attenzione venisse magnetizzata dall’unica cosa realmente importante: come farcela a sopravvivere alla morte delle persone care, di chi abbiamo amato, di chi ci ha amato; trovando davvero credibili soltanto quei libri che hanno l’ostinazione di, o che si arrendono a, raccontare l’elaborazione di un lutto, seguendone le tracce con una paradossale fedeltà – per certi versi morbosa, per altri versi inutile e magnificamente gratuita.

Karl Ove Knausgård nella sua recherche intitolata La mia lotta (il romanzo autobiografico in sei volumi, che Feltrinelli ha cominciato a pubblicare due anni fa, nella traduzione di Margherita Podestà Heir) sembra anche lui vagabondare per pagine e pagine; un esploratore curioso e disorientato nel labirinto senza cunicoli che è la nostra futile esperienza quotidiana, intento a scovare quel punto d’origine dove sembra essere collocata la fonte stessa del suo romanzo-fiume. Quando intorno a pagina 300 del primo volume viene sopraffatto dalla notizia della morte del padre, immediatamente la sua voce che fino a quel momento ci era sembrata intelligentissima, acuta, seduttiva, perde il suo equilibrio – al medesimo tempo ci sembra aver trovato un timbro autentico.

Dopo aver discusso con un addetto alle pompe funebri dei dettagli del funerale, Karl Ove si ritrova fuori dell’agenzia insieme al fratello Yngve:

Quando fummo in strada e ci incamminammo verso la macchina, qualcosa era cambiato. Quello che vedevo io, ciò da cui eravamo circondati, non mi sembrava più così nitido e chiaro, era come se fosse stato spinto in secondo piano, come se intorno a me si fosse creata una specie di zona che era stata prosciugata da qualsiasi senso, di qualsiasi significato. Il mondo era sprofondato, quella era la sensazione che provavo, ma non me ne importava perché papà era morto. Mentre l’ufficio era perfettamente vivo e nitido nella mia coscienza con tutti i suoi dettagli, all’esterno il paesaggio della città era indistinto e grigio, qualcosa che stavo attraversando perché dovevo. Non pensavo in maniera diversa, la mia realtà interiore era immutata, l’unica differenza era che adesso richiedeva più spazio e quindi spingeva via quella esterna. Non avrei saputo spiegarla in altro modo.

Alla morte improvvisa di un padre è come se non potesse corrispondere altro che un turbamento del mondo interno, il suo farsi appannato, il suo perdere consistenza. La realtà di punto in bianco è solo una gigantesca confusione, una macchia.

Giuseppe Rizzo la settimana scorsa qui su Internazionale si tuffava senza paracadute nell’oceano letterario delle storie di perdita. Marco Peano sempre su Internazionale qualche tempo fa metteva insieme, in una minuta fenomenologia letteraria, il memoir di Joan Didion L’anno del pensiero magico, il romanzo autobiografico Breve come un sospiro di Anne Philippe, Il libro di mia madre di Albert Cohene, Dove lei non è di Roland Barthes, per provare a riconoscere una sorta di stigma che portano sul corpo coloro che sono orfani, vedovi, mancanti: è il segno di coloro che hanno provato l’esperienza della pura irrealtà, dello smarrimento totale.

Helen Macdonald intitola il secondo capitolo del suo memoir Io e Mabel (appena uscito da Einaudi, tradotto in modo magistrale da Anna Rusconi) “Persa” e lo apre così:

Stavo per uscire, quando suonò il telefono. Risposi. Di fretta, le chiavi di casa già in mano. – Pronto? – Una pausa. Mia madre. Le bastò una frase, questa: – Hanno chiamato dal St Thomas’Hospital, – e io capii. Che mio padre era morto. Lo capii perché dopo la pausa disse quella frase, e la disse con una voce che non le avevo mai sentito. Morto. Mi ritrovai per terra. Mi avevano ceduto le gambe ed ero seduta sulla moquette, il telefono schiacciato contro l’orecchio destro, ero lí che ascoltavo mia madre e fissavo il ciuffo di lichene sulla mensola, così impossibilmente leggero, un groviglio evanescente di ramificazioni dure e grigie dalle punte polverose e affilate, separate da calmi spazi d’aria, mentre mia mamma diceva che in ospedale non c’era stato niente da fare, il cuore, credo, niente da fare, non c’è bisogno che vieni stasera, non ti precipitare, è un viaggio lungo e ormai è tardi, cosa ti metti in macchina adesso, non c’è nessun bisogno, e naturalmente erano frasi prive di senso; né io né lei sapevamo che cosa potevamo o dovevamo fare, o che diavolo era successo, e sapevamo solo, e con noi mio fratello, che stavamo ancora tutti aggrappati a un mondo che non c’era già piú.

Che fare quando il mondo non esiste più? Helen Macdonald decide di darsi alla falconeria. Il suo libro – H is for Hawk in inglese – è il fenomenale resoconto dei mesi che seguono alla morte del suo adorato padre, celebre fotografo del National Geographic, pilota amatoriale, che da bambina l’aveva appassionata al mondo degli animali e della natura, all’osservazione del cielo e degli uccelli. Helen si prende in casa una piccola femmina di rapace, un’astore di dieci settimane, la battezza Mabel, e prova ad addestrarla seguendo le regole di un’arte talmente antica, elitaria, maschile, da apparirci, questo per lei, un feroce e presuntuoso cammino di penitenza o formazione spirituale.

Lo stesso rito autoinflitto a cui pare essersi sottoposto Terence Harbury White, autore di The once and future king (su cui è basato La spada nella roccia), la cui vita tormentata Macdonald ricostruisce parallelamente alle sue vicende con l’astore. Io e Mabel ha i capitoli sdoppiati: in una metà c’è un rapace che impara a volare, a rispondere ai richiami di Helen, a uccidere fagiani e conigli; nell’altra uno scrittore inglese che beve di brutto e si nasconde dal mondo. White fu un naturalista, uno straordinario scrittore e – stando alle sue biografie – un omosessuale represso, un sociopatico, e soprattutto un falconiere. Ma il suo esperimento di addestrare anche lui un astore si rivelò in definitiva un disastro; raccontato in The Goshawk, libro inedito in Italia, testo di cui Macdonald s’innamora quando è una ragazzina, e la cui analisi fa da controcanto a tutto Io e Mabel, il tentativo di White è una prova di resistenza alle spire dell’infelicità attraverso una determinazione maniacale.

Un omosessuale depresso e un piccolo rapace ovviamente incomprensibile e umorale: come tutti i grief memoir o i misery memoir, anche in questo Macdonald ha bisogno di qualcuno in cui immedesimarsi, di un’ossessione da coltivare. Ma questa duplice bizzarrissima scelta ce la fa sentire irragionevolmente più vicina. Ecco una narratrice terribilmente spaesata, in balia di due fissazioni bambinesche, all’inseguimento di un tempo perduto – i suoi libri e le storie di falconeria predilette da piccola, la sua infanzia con il padre – che si rivelano ogni pagina meno rasserenanti: la portano a isolarsi, a lasciare il lavoro, a non occuparsi nemmeno delle minime incombenze quotidiane, le bollette da pagare, le pulizie domestiche.

Helen preprara i geti (i lacci di pelle che si infilano nelle cavigliere dei rapaci addestrati), lega i campanelli all’artiglio, educa Mabel a posarsi sul guanto e beccare la carne che le offre; l’astore alle volte la segue, alle volte recalcitra, vola in modo ipnotico nelle splendide campagne del Cambridgeshire, scappa, la graffia, ora obbedisce, ora impazzisce. Il tentativo di stabilire una relazione diventa una pratica sfiancante e fallimentare (“Vivere con un’astore è come adorare un iceberg, o una slavina battuta da un vento gelido”), e l’iniziazione fatta in casa di Helen alla falconeria è una forma di auto-ottundimento, l’ambizione di sprofondare nella natura selvaggia – scopre alla fine Macdonald – somiglia moltissimo a una vera depressione.

Per guarire dal mio dolore sconfinato avevo creduto di dovermi rifugiare nella natura selvaggia. Era quel che facevano tutti. Me lo dicevano anche i libri che avevo letto: tantissimi di quei testi sulla natura erano stati ispirati dal lutto o dalla tristezza. C’erano quanti si erano concentrati sul firmamento degli animali più sfuggenti. Chi era andato in cerca di oche delle nevi e chi di leopardi delle nevi. Altri erano rimasti fedeli alla terra, avevano percorso sentieri, montagne, coste e valli. Qualcuno aveva cercato la natura lontano, altri più vicino a casa. ‘La natura, con i suoi boschi verdi e tranquilli, allevia e guarisce ogni afflizione’, scriveva John Muir. ‘Non esiste dolore in terra che la terra non possa guarire’. Adesso sapevo cos’era: una bugia, allettante ma pericolosa. Ero furibonda con me stessa per aver irrazionalmente e ciecamente creduto che quella fosse la cura di cui avevo bisogno. Le mani umane sono fatte per tenere altre mani, non dovrebbero diventare esclusivamente posatoi per rapaci. E la natura selvaggia non è una panacea per l’animo dell’uomo: troppe cose nell’aria possono corroderla.

La sua ammissione non è una sconfitta, ma un giusto dimensionamento. Il mondo che era sparito – dopo un’immersione impossibile nella proiezione fantastica di un universo popolato di uccelli cacciatori e prede, foreste che somigliano a quelle di re Artù descritte daT.H. White – ritorna al suo posto. E ci lascia una sensazione di misteriosa quiete.

Se la scrittura di Macdonald è immaginifica, la prosa carica e poetica, le ultime pagine di Io e Mabel hanno un andamento più piano: lei accetta di assumere psicofarmaci e un pezzo alla volta riprende forma un principio di realtà. Un uccello è un uccello e non un dio inquietante. Ci sono regole banali che la vita sociale ci chiede di rispettare. Sopravvivere è questo, non cedere all’incanto mitico della natura – ce lo insegnava già Ulisse nei suoi viaggi all’inizio della storia della letteratura, ce lo ribadiscono molte recenti storie che raccontano di uomini ammaliati dalle terre selvagge, come quella di Christopher McCandless in Into the wild, o quella di Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson.

Eppure essere arrivati a questo punto – a questa provvisoria riconciliazione – non è una semplice guarigione, ma ci lascia un’eredità.

Fausto Di Goethe, Getty Images

Quel che c’è di più spiazzante nei libri che si sviluppano intorno all’elaborazione del lutto è la consapevolezza di essersi sporti sull’abisso: la vertigine di essere capaci di provare dei sentimenti che nemmeno immaginavamo potessero esistere.

Quando in La mia lotta Karl Ove Knausgård descrive il fratello che per la prima volta dopo la morte del padre compie con la sua auto la stessa manovra per parcheggiare che faceva il padre fuori della loro vecchia casa, quella semplice azione è sufficiente per “spingere il pianto ai margini della coscienza”. Ritrovarci al posto di nostro padre o nostra madre ci induce un senso di onnipotenza (noi siamo vivi, vivi, e tu sei morto!) misto a una colpa indicibile anche a noi stessi: un’eresia della vita. Chi siamo noi per occupare quel posto?

Nel romanzo appena uscito di Gabriele Di Fronzo, Il grande animale, la vicinanza simile a promiscuità che si può sperimentare nell’accompagnare un padre alla morte, ci lascia una percezione di inquieta allegria, un rovesciamento infantile e blasfemo. Il protagonista è un tassidermista, Francesco Colloneve, che si trasferisce di fatto a casa del padre infermo per occuparsene. Mano a mano che le giornate e le settimane avanzano le regole consuete del rapporto tra i due sfumano.

Il maggior piacere che provava mio padre nell’ultima settimana di vita, era quello di scambiarsi gli abiti con me, a parte l’accappatoio azzurro che riteneva unicamente suo e non prestabile, e il foulard avvolto al collo, il resto del suo guardaroba lo faceva a cambio a patto che io gli dessi ciò che in quel momento avessi indosso.
Che fosse una camicia per un maglioncino, un maglione di lana al posto di una tuta o i miei jeans per un paio di pantaloni del suo pigiama, mio padre mi chiedeva il favore di accontentarlo per quel baratto d’indumenti, ci si svestiva ognuno nella propria camera, lui nella stanza da letto, con la porta rigorosamente chiusa, e io in bagno. Una volta spogliato mi avvisava che era pronto e mi domandava se anche io lo fossi, poi spettava a me, solo in boxer e calzetti e con il bolo di vestiti tra le braccia, andare da lui, che mi apriva la porta lo stretto necessario perché potesse avvenire lo scambio.

Ma la parte veramente impressionante del libro di Di Fronzo comincia con il lutto vero e proprio, a partire dalla scena di due pagine, scritta in modo virtuosistico, in cui gli addetti alle pompe funebri preparano il cadavere.

Per tenere gli occhi chiusi, introdussero sotto le palpebre un guscio di plastica. Per la bocca, collocarono un rotolo di telo sotto il mento. Uno asperse nell’aria della camera un deodorante spray. L’altro si accertò che la finestra fosse ben chiusa. Fecero una iniezione arteriosa. Poi tornarono alla bocca, e con un punto di legatura serrarono le mascelle. Precedevano ogni azione con un uso pignolo degli antisettici, così da disinfettare. Dalla giugulare drenarono il sangue. Introdussero in modo costante e lento nel suo corpo dei liquidi, e contemporaneamente fecero defluire all’esterno i liquami.

Cosa possiamo farne del corpo morto dei nostri cari? Che presenza oscena e sacra è? Ci lacera l’impulso opposto a disfarcene e a volerlo in qualche modo non abbandonarlo alla terra, trattenerlo per sempre.

In una delle prime pagine di Italia de profundis Giuseppe Genna ci riporta con una confessione straziante e impudica il suo impatto con la salma del padre appena morto:

Mi fanno uscire dalla stanza e poi rientrare ed è sul letto, supino. La faccia è rilassata, le guance sono normali, sembra che dorma, a parte quel blu, quel neromarrone degli arti terminali, e il braccio col pugno chiuso piegato a novanta gradi, che adesso è verticale nel letto. È paradossale, sta compiendo un gesto, sembra che compia un gesto ed è un cadavere. Chiedo al responsabile della guardia medica se possono per favore abbassare quel braccio, è terribile, sembra indicare il soffitto, sembra un saluto comunista venuto male, è terribile, esprime un’intenzionalità compressa, cristallizzata, il suo ultimo gesto sarebbe questo? Ma l’uomo del pronto soccorso mi dice che non sono abilitati a farlo, mi dice che è in rigor mortis, dovrebbero mettersi in quattro a riportare giù il braccio, spezzandogli l’osso. C’è una tecnica, se ne occuperà l’addetto delle pompe funebri. Nemmeno lo portano in obitorio, come mi aspettavo. Dovrei emettere stridii disumani? Mi dicono che devo chiamare d’urgenza le pompe funebri, altrimenti passa qui tutta la notte, il cadavere. E se rimane qui, bisogna spalancare le finestre, perché comincerà a emanare il puzzo dolciastro, di biscotto e ananasso andato a male, e se ne vanno.

Ma il suo denudamento non basta a garantirgli una tutela del dolore: perché a Genna tocca poi fare il diario, terribile e grottesco, della ricerca di un medico legale che constati il decesso. Il padre è morto la sera di Capodanno, e tra feste e domeniche occorre aspettare almeno tre giorni. Soltanto una comicità kafkiana, una ragione dell’assurdo, ci può preservare forse dalla vera follia di passare giorni con il cadavere di nostro padre deformato dal rigor mortis.

Del resto non è altrettanto vertiginosa l’idea che a un certo punto i nostri genitori possano, attraverso la malattia e la morte, trasformarsi – per un prodigio al contrario – da padri e madri, autorevoli e intangibili, da nostri creatori, in creature troppo terrestri, fatti di pelle avvizzita e culi da pulire?

Ci sono due passi vicini in Patrimonio di Philip Roth dove questa piccola verità sembra smascherarsi davanti ai nostri occhi con una deflagrazione talmente piena da essere meravigliosamente comica.

Era proprio questa la discrepanza che aveva fatto del ripudio della sua autorità un conflitto così opprimente, così pieno di dolore e di scherno. Non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare. […] Portai giù la federa puzzolente e la misi in un sacco nero della spazzatura che legai forte, e portai il sacco alla macchina e lo buttai nel bagagliaio per darlo in lavanderia. E perché questo era giusto e come doveva essere non avrebbe potuto essermi più chiaro, ora che il lavoro era finito. Questo, dunque, era il mio patrimonio. E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era.
Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.

La merda forse ci salva. Ci rende immortali. Nei libri che raccontano non la morte improvvisa, ma una lunga degenza, il sostare presso il corpo del genitore allettato, l’accudimento del figlio alla madre o al padre malato, proprio questo sembra l’unico viatico per non venire – dopo il lutto – catapultati in una dimensione di spaventoso annullamento.

L’incipit di Rosso americano di Rick Moody ha una sua giusta celebrità anche per la sicurezza con cui afferma questa realtà:

Colui che conosca le pieghe e le complessità del corpo della propria madre, egli non morirà mai. Colui che conosca le latitudini del corpo della propria madre, colui che l’abbia sollevata tra le braccia e quindi battesimalmente immersa nella vasca del bagno al pianterreno, prima una e poi l’altra delle sue gambe alabastrine, colui che la lavi con campioncini di sapone Woolworth, colui che ruoti le stridenti manopole e saggi la temperatura dell’acqua con l’interno del proprio polso, colui che versi un paio di cucchiaini di Sali alla rosa nel gorgo sotto il rubinetto e si stupisca per il rosso acceso che ne risulta, colui che con la mano fletta le sue membra sclerotiche come per accertarsi dell’efficienza di un cardine, colui che abbia baciato la propria madre lì dove più radi sono i capelli candidi, egli non morirà mai.

Accettare in pieno la vita che si sfascia e scompare, poterne portare il carico, fare di ogni lutto non una liberazione ma la riscoperta di una vita che – nonostante la genetica e la prossimità – non avevamo conosciuto fino in fondo, e imparare cosa vuol dire sopravvivere a partire dalle reazioni perfino muscolari del nostro corpo: in questo senso la letteratura che racconta la perdita di una persona amata ci fa un dono grandioso. Ci dice che possiamo essere fragili – la nostra esperienza è fragile, la nostra memoria perfino come scrittori è fragile – e anzi è proprio la finale coscienza della fragilità delle persone e di noi stessi che ci può consentire di tenere con noi ciò che c’è di più prezioso dell’esistenza.

Voglio concludere con un ennesimo libro, oltre tutti quelli che ho citato, che ho particolarmente a cuore. È La vita dopo di Donald Antrim, un vero capolavoro che andrebbe ristampato in tascabile da Einaudi e che meriterebbe miglior destino di quello fugace che ha avuto nel 2007 quando è uscito. La vita dopo (tradotto da Matteo Colombo in Italia) è il romanzo autobiografico che Antrim ha scritto su di sé e la propria madre, Louanne, e comincia pressapoco così:

Aveva sessantacinque anni, e da molti tossiva senza sosta. Non c’era mai stato verso di affrontare con lei l’argomento fumo. Scoprire che aveva un cancro non fu una sorpresa. Le era cresciuto nei bronchi e non si poteva operare. Come palliativo le fu offerta la radioterapia – che avrebbe potuto fare (e per breve tempo così fu) rimpicciolire il tumore quel tanto da permettere l’ingresso all’aria nel polmone congestionato – ma mia madre non fu ritenuta una candidata adatta alla chemioterapia. Si era, nel corso di quarant’anni di, come si suol dire, vita dura, progressivamente e inesorabilmente deteriorata. La storia del deterioramento di mia madre, durato una vita, è, per alcuni versi, la storia della sua vita stessa. La storia della mia vita è intrinsecamente legata a questa storia, la storia del suo deterioramento. È la storia intorno alla quale ruota constantemente il mio modo di percepire me stesso e gli altri. Sarà questa storia, o in ogni caso il mio ruolo in questa storia, a permettermi di non perdere mia madre.

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