22 gennaio 2018 15:30

Sposerò presto l’altra mamma di mia figlia, ma chiamarla moglie proprio non mi piace. È brutto se continuo a dire la mia compagna? –Giovanna

Ho fatto coming out a sedici anni, ma ne ho impiegato qualcuno in più prima di riuscire a dire “sono gay” senza avvertire un nodo allo stomaco ogni volta. Per fortuna il mondo andava nella direzione giusta e con il tempo l’imbarazzo è gradualmente svanito. Un bel giorno ho incontrato un ragazzo. Anzi, all’inizio era “una persona”. Perché, anche se quando parlavo di lui tutti sapevano che era un uomo, la neutralità di “persona” mi faceva sentire meno esposto. Quando ci siamo messi insieme ero al settimo cielo. Ma mi ci è voluto un po’ a chiamarlo “il mio fidanzato” senza scrutare la reazione di chi avevo di fronte.

Negli anni successivi è successo qualcosa di incredibile: siamo diventati padri di tre bambini. E io ho imparato a dire “siamo due papà” ogni volta che qualcuno mi chiedeva notizie sulla loro mamma. Quando la legge del paese dove abitavamo ce l’ha finalmente permesso, ci siamo sposati. Eppure dire “mio marito” non mi veniva proprio. Non so, mi faceva sentire una sciura d’altri tempi. Mi sono comunque sforzato di farlo, perché gli uomini che dicevano “mio marito” erano ancora troppo pochi e sentivo che era giusto farlo. E così con il tempo mi sono abituato anche a quello.

Gli esami però non finiscono mai e oggi devo imparare a dire “il mio ex marito” senza sentire di nuovo quel nodo allo stomaco che avevo a sedici anni. Ovviamente tu e tua moglie potete chiamarvi come preferite. Ma non dimenticate che per una coppia omosessuale il privato è ancora politico.

Questa rubrica è stata pubblicata il 19 gennaio 2018 a pagina 10 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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