03 aprile 2021 09:58

Me ne stavo sul divano alla fine di una lunga giornata, quando una notifica del telefono mi ha avvertito che avevo ricevuto un messaggio su Facebook:

Non ci posso credere, finalmente ti ho ritrovato! Ti ho visto in tv e ti ho riconosciuto subito! Ora vediamo se tu riconosci me però… Ahaha! Comunque sappi che ti porto sempre nel cuore, sei stato una parte indimenticabile della mia gioventù

In effetti il giorno precedente avevo partecipato a un programma televisivo e poi, come succede ogni volta, mi aveva scritto qualche amico che mi aveva visto. Ma questo messaggio proprio non sapevo da chi arrivasse: fissavo la foto profilo di quell’elegante donna bionda cercando di capire di quale amica di gioventù si potesse trattare, ma niente. Neanche il nome, benché originale, mi ricordava nulla. Me lo ripetevo in testa per farmi strada nella nebbia della memoria: Bia… Bia… Bia… Improvvisamente ho collegato: la donna che mi aveva scritto era il mio vecchio amico Biagio.

Sono rimasto un secondo con lo sguardo fisso nel vuoto. Avevo visto questa scena in decine di film: quello di incontrare qualcuno dopo tanto tempo e trovarlo di genere opposto è un cliché molto usato – spesso abusato – nel cinema. Ma nella vita reale non mi era mai capitato: Biagio, il mio vulcanico amico napoletano che non vedevo da oltre vent’anni, non c’era più e al suo posto c’era Bia. Dopo un attimo di esitazione, mi sono ripreso e sono entrato in modalità politicamente corretto. Mi considero un attivista lgbt+ da oltre vent’anni e, con l’attenzione e il pizzico di orgoglio di chi finalmente può mettere in pratica anni e anni di istruzioni in caso di emergenza, le ho risposto così:

Bia, che bello sentirti! Ci ho messo qualche minuto a fare mente locale ma poi ovviamente ti ho riconosciuto. Stai benissimo e sono molto geloso dei tuoi lunghi capelli. Come stai? Dev’essere stato un percorso intenso il tuo, ma io credo che l’onestà emotiva con se stessi e con la propria identità sia la base di un’esistenza felice, quindi sono molto contento per te. Neanche io ti ho dimenticata e se passi da Roma spero di rivederti

Devo aver scritto le cose giuste, perché poco dopo è arrivata una nuova notifica e Bia mi chiedeva di sentirci al telefono, per salutarci a voce. A quel punto però la mia impeccabile preparazione in materia è crollata come un castello di carte. Ho declinato la proposta con una scusa, aggiungendo che l’avrei chiamata al più presto. La realtà è che non ne avevo il coraggio. Nei messaggi l’avevo chiamata Bia, ma nella mia testa lei era ancora Biagio. Doversi abituare all’idea che due immagini apparentemente così tanto diverse sono in realtà la stessa persona non è qualcosa che si riesce a fare in pochi minuti, neanche dopo anni di militanza. Ho scrutato di nuovo la foto di Bia, in cerca degli occhi di Biagio, come a voler capire se la persona che conoscevo fosse ancora da qualche parte in quel corpo. E alla fine ho dovuto ammettere a me stesso che non mi sentivo ancora pronto a parlare con lui. Anzi, con lei.

Uscire allo scoperto
Nella battaglia per i diritti civili, omosessuali e trans si sono sempre battuti fianco a fianco. Si dice che a innescare i moti di Stonewall, gli scontri con la polizia di New York che nel 1969 hanno segnato il momento di svolta per il movimento di liberazione lgbt+, sia stata la transessuale Sylvia Rivera, che ha lanciato una bottiglia contro gli agenti. Chi come me è cresciuto nelle associazioni per i diritti civili, ha imparato a fare proprie le istanze della comunità transgender, ma la realtà è che i problemi, il vissuto e anche le richieste di diritti degli omosessuali e quelle dei transessuali sono sempre state diverse, e non basta essere gay per comprendere in modo immediato la transessualità.

Ai tempi di Stonewall, “gay” era una parola con cui si definiva un ampio ventaglio di orientamenti, identità ed espressioni sessuali e di genere che all’epoca condividevano tutti una grande esigenza comune: uscire allo scoperto. Dagli anni novanta in poi, dopo che la crisi dell’aids aveva spinto il movimento a organizzarsi e rafforzarsi, è stata adottata la sigla lgbt per distinguere le diverse anime della comunità. Oggi quella sigla si è perfezionata fino a diventare lgbtqqiaa, che a lesbiche, gay, bisex e trans ha aggiunto nel tempo anche le iniziali per le persone in dubbio (questioning), queer, intersex, asessuali e alleati etero, e che generalmente si abbrevia in lgbt+. Ma il fatto di trovarci tutti dentro una stessa sigla non ci ha resi sempre necessariamente uniti e, anzi, in certi casi ha provocato spinte centrifughe da parte delle singole parti del movimento, ansiose di emanciparsi da realtà ed esigenze che in fondo non sentivano di condividere realmente.

Come ha scritto anni fa sul New York Times Susan Stryker, professoressa di studi di genere dell’Università dell’Arizona, “molti omosessuali e lesbiche non transgender hanno sempre considerato la questione trans come marginale, un po’ deviata, meno rispettabile. Qualcuno di loro ci trova destabilizzanti per la loro identità, esprime apertamente ostilità nei nostri confronti e ci scredita in quanto strani, malati o complessati. Insomma, la T non ha sempre convissuto in modo sereno con la L, la G e la B”.

Man mano che l’opinione pubblica ha acquisito maggiore consapevolezza dei differenti gruppi del movimento e delle loro specifiche rivendicazioni, è migliorato anche il rapporto tra omosessuali e transessuali. Negli Stati Uniti, per esempio, storiche conquiste come il matrimonio egualitario o l’apertura dell’esercito alle persone trans hanno dimostrato che è ancora strategico muoversi come fronte unitario. Purtroppo di recente si è un aperto un conflitto interno tra una parte dei gruppi lesbici e femministi e la comunità transessuale intorno alla definizione di donna. Ma in generale si può dire che la componente trans ha assunto sempre più peso, visibilità e rilevanza all’interno del movimento lgbt+.

In ogni caso, è ancora vero che un ragazzo gay in fatto di transessualità spesso ne sa esattamente quanto i suoi coetanei etero. Cioè molto poco. Perfino io, che rispetto ai giovani omosessuali di oggi ho vissuto una stagione in cui l’associazionismo era molto più diffuso e i contatti tra le varie parti del movimento molto più stretti, mi sono trovato inizialmente impreparato a gestire la situazione.

Erano cambiati il nome, gli abiti, i capelli, ma la sua risata era sempre quella

Superando la mia reticenza, qualche giorno dopo il nostro scambio di messaggi ho telefonato a Bia. Può sembrare sciocco, ma la mia principale paura era di sbagliarmi con i pronomi maschili e femminili. Avevo il terrore di fare qualche passo falso e offenderla, o anche solo di fare una figuraccia. Ma al suo “pronto” le mie preoccupazioni hanno cominciato a svanire: in pochi minuti eravamo già lì a parlottare come facevamo nei primi anni novanta. La nostra era stata un’amicizia, come accade spesso tra ragazzi, legata alla nostra comune passione per la moda e soprattuto per il nostro idolo: Gianni Versace. Ma oggi mi rendo conto che ad avvicinarci davvero era stato il fatto di trovarci entrambi in un periodo delicato della vita quando, dopo il coming out, facevamo i primi passi nel mondo. Proprio come la G e la T del movimento di cui facevamo parte, io e Biagio condividevamo l’esigenza comune di uscire allo scoperto. Poi però, una volta che ognuno di noi si è avviato verso la propria vita, la stagione della nostra amicizia è finita senza un motivo particolare e ci siamo persi di vista.

Quella telefonata si è trasformata in una cena la prima volta che sono capitato a Milano, dove Bia lavora nel campo della moda e abita con il suo compagno, un milanese molto gentile e molto tatuato, e i loro tre gatti. Lei l’ho trovata bella, spontanea e, come amano dire a Napoli, molto chic. Gianni Versace avrebbe sicuramente apprezzato. Tutti noi costruiamo in qualche modo la nostra immagine esteriore, ma presumo che per le persone trans ci sia un processo di definizione del sé ancora più cosciente e creativo, a partire dal nome. “Bia mi piace molto”, le ho detto, “e poi è bello che in fondo sia sempre stato il tuo nome”. “No, no, neanche in fondo: lo è sempre stato davvero. A casa mia a Napoli era tutto un ‘Bià, vieni qui; Bià, senti un attimo’. Magari la mia famiglia non ha neanche notato nulla di diverso da prima!”. E giù a ridere.

La risata di Bia è bellissima. Ed è stata proprio quella a farmi capire tutto: era esattamente la stessa risata di Biagio. Non era vero che lui non c’era più e al suo posto c’era un’altra persona: erano cambiati il nome, gli abiti, i capelli, ma la sua risata era sempre quella. Perché Bia è sempre stata Biagio e Biagio è sempre stata Bia.

“Tra l’altro io non lo so mica cosa significhi essere una femmina, sai”, mi ha detto lei sistemandosi i lunghi capelli biondi. “Ah no?”, ho risposto io, di nuovo sul punto di essere gettato nel burrone della confusione di genere. “No, tesoro, io sono una donna transessuale. Non credo di sapere cosa significhi essere una donna biologica, perché non sono nata e cresciuta come una ragazzina biologica. Ed è per questo che per adesso non voglio neanche cambiare nome legalmente: finché non sarà possibile avere un documento che riconosce il mio percorso e la mia identità nella sua completezza – uno su cui c’è scritto Biagio Bia – non ne voglio uno che mi rappresenti in modo parziale”.

Percorsi individuali
Questo mi giungeva nuovo. Pensavo che il cambio di nome e quello di sesso fossero una sorta di punto di arrivo a cui ambissero tutte le persone trans. “La transizione non è un percorso prestabilito e uguale per tutti”, mi ha spiegato Bia. “Ognuno compie la sua transizione e il punto di arrivo è quello che ognuno individua per sé. E che riguarda solo quella persona, e al limite il suo o la sua partner. Facciamo un esempio: a te, stasera a cena, ti cambia qualcosa se io ho fatto una vaginoplastica oppure no?”. No, ovviamente non cambiava nulla. E mi rendevo conto per una persona trans quanto dev’essere estenuante – per non dire umiliante – dover continuamente gestire la morbosa fissazione altrui per la questione genitale. È un aspetto di cui non si dovrebbe proprio discutere, perché è irrilevante.

“Non posso parlare per le tutte le donne trans, ognuna ha il suo vissuto, ma personalmente io non mi sento una donna biologica”, ha continuato Bia, “perché non voglio passare per quella che non sono. Alcuni ancora considerano la parola ‘trans’ un insulto – se a una le dicono ‘sembri una trans’ non è certo inteso come un complimento – ma io sono orgogliosa di esserlo. È semplicemente una delle caratteristiche del mio essere”. La ascoltavo con un misto di ammirazione e commozione e discorsi che altrimenti sarebbero stati difficili da afferrare, quando venivano dei lei diventavano cristallini. Ritrovare dopo tanto tempo un’amica transessuale è la cosa più facile del mondo: basta uscire a cena e parlare con lei.

“Comunque al di là di tutti questi grandi discorsi, guarda che io sono un tipo casalinga anni cinquanta: fosse per me starei tutto il giorno a cucinare. Ma purtroppo di questi tempi tocca andare a lavorare!”, mi ha detto ridendo. Mentre chiacchierava, muoveva le mani e le dita affusolate, facendo scintillare il solitario che le ha regalato il compagno. Già ai tempi della nostra amicizia Bia era un ragazzo dalla bellezza delicata. Alto, filiforme, con un portamento di un’eleganza quasi aristocratica che faceva da perfetta cornice alla sua intelligenza brillante. Anche la sua voce era già piuttosto acuta e squillante. Dunque era come diceva lei: ora aveva un aspetto tradizionalmente più femminile, ma la sua essenza trans era sempre stata sotto gli occhi di tutti. E questo sicuramente mi ha aiutato ulteriormente a superare l’idea che Biagio e Bia fossero due persone distinte.

Ma la cosa forse più sorprendente è stata la velocità con cui la questione dell’aspetto fisico è passata in secondo piano. Donna, uomo, etero, gay, trans o cisgender: non avevamo neanche finito di mangiare il primo che tutte quelle etichette avevano già perso senso. Di Bia quella sera non m’interessava la taglia di reggiseno (nonostante lei mi facesse ridere ammettendo di essersi fatta prendere un po’ la mano), ma sapere com’era stata, come si era sentita, se la sua famiglia l’aveva sostenuta. L’intelligenza e la sensibilità che mi avevano rapito vent’anni prima, erano ancora tutte lì.

Ci aspettiamo che chi cambia identità di genere diventi qualcun altro, diverso da com’era, ma nel caso di Bia non è stato così. Lei ora è solo un po’ più se stessa di prima. Non so se questo vale per molte altre persone transessuali oppure no, ma imparare a vedere qualcuno per quello che è realmente è già una lezione importantissima che mi porto a casa. E di questo devo ringraziare Bia, la mia amica ritrovata.

Dopo quella bellissima serata non ci siamo più visti, perché ci si è messa di mezzo una pandemia, ma abbiamo già un appuntamento: mi ha promesso che, appena potrò andare a Milano, mi inviterà da lei per insegnarmi a fare la sua famosa frittata di pasta. E io non vedo l’ora.

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