13 giugno 2017 14:07

Franz Kafka, nei suoi diari, registra l’impressione di custodire in sé energie creative in abbondanza che però – per mancanza di tempo (gliene toglie il lavoro, ma anche la certezza che non vivrà più di quarant’anni), per l’assenza di condizioni ambientali adeguate, per la stessa natura della scrittura – non riescono a esprimersi compiutamente. Sembrano annotazioni sulla condizione dell’artista, ma a pensarci calzano con la nostra esperienza comune.

C’è sempre un di più – in petto, nella mente – che rende ciò che facciamo un di meno. Di qui frasi come: mi impediscono di lavorare come si deve; mi impediscono di esprimere tutto il mio amore. Oppure: questo paese ha energie da vendere ma la crisi, la burocrazia, il malaffare, il nepotismo, la rivoluzione mancata, i vecchi, i giovani gli impediscono eccetera. Sono lagne, sì, ma piene di verità. Coviamo una potenza che quando diventa atto sfiata, si disperde. Siamo assai più di quanto riusciamo a essere, e ogni vita, anche pienissima, sfocia nel senso d’incompiutezza.

Come accade a Kafka, ma anche, perché no, a Francesco Totti, che ha inscenato lo spettacolo dell’addio in uno stadio in lacrime. Non è un accostamento ironico. C’è, nelle mani, nei piedi del genere umano, a ogni livello, un di più. Ma il tempo è carogna, taglia corto. E il mondo che ci siamo dati stupidamente lo asseconda.

Questa rubrica è stata pubblicata il 9 giugno 2017 a pagina 12 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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