19 settembre 2017 12:46

Pare che la prima virtù di un politico sia il realismo, ma non è sicurissimo. In certi periodi tutti sfoggiano una qualche bella utopia ricordandosi della realtà solo quando decidono di affossarla. In certi altri non si fanno troppe chiacchiere e l’arte dell’uomo di stato consiste nello stare a proprio agio dentro la melma del reale.

Da parecchio ci troviamo in questa seconda fase. Per usare il linguaggio di Machiavelli, l’immaginazione di “repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero” non risulta più politicamente conveniente e si preferisce “la verità effettuale della cosa”. Verità in nome della quale si va dal velo sulla morte barbara di Giulio Regeni alla riduzione delle iniziative umanitarie, a svolazzi di anime belle che non vedono quanto la sofferenza e la disperazione siano diventate un problema di polizia, alla fierezza per il crollo degli sbarchi, come se non significasse la chiusura di una via di fuga dalla mattanza delle guerre e della fame.

Di sicuro non ci fermeremo qui. Il realismo politico è una china tra le più facili da discendere, specie in fase elettorale, e impone che si solleciti sempre la parte peggiore degli esseri umani. Lydie Salvayre, nel suo romanzo Non piangere (L’asino d’oro 2016), ci ricorda un’utile definizione di Georges Bernanos: “Il realismo è il buon senso delle carogne”.

Questa rubrica è stata pubblicata il 15 settembre 2017 a pagina 14 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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