31 dicembre 2017 12:01

Che locuzione interessante è “far finta di nulla”. Tira in ballo due paroline sicuramente non da poco: la finzione e il niente. Voi, per esempio, vedete che davanti a ogni bar, davanti a ogni supermercato, davanti a ogni ristorante, c’è sempre un giovane col cappello in mano, una donna con un bambino in braccio, un attempato signore in ginocchio col cartello a lato che recita: “Fame”. Sono la parte immediatamente osservabile di un esercito planetario della miseria che, dato l’effetto dei neuroni specchio, dovrebbe turbarci almeno un po’.

Non ci preoccupiamo, infatti, per la sorte dei personaggi di un romanzo o di un film o di una serie televisiva? Figuriamoci dunque con persone in carne e ossa. Siamo brava gente, vediamo altri esseri umani in difficoltà, la loro sofferenza non può che coinvolgerci. Invece no. Il dato preoccupante è che nella realtà ci commuoviamo sempre meno, ci infastidiamo sempre più, passiamo oltre facendo finta di nulla.

Così, mentre paghiamo il biglietto o il canone per lasciarci trascinare dentro spettacoli costruiti apposta per trasmetterci le ansie e i dolori di individui finti, alle ansie e ai dolori di individui veri opponiamo l’arte più diffusa del pianeta: una nostra personale finzione che li riduce a niente. E meno male che questa nientificazione, in certe aree fortunate del globo come la nostra, per adesso è soltanto per finta.

Questa rubrica è stata pubblicata il 22 dicembre 2017 a pagina 14 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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