20 febbraio 2018 18:12

Ogni tanto si sente dire: è un caso isolato. Il caso è in genere dei più orribili: ci fa ribrezzo, ci fa rabbia, la notte dormiamo male. Ma ecco che dai formulari che custodiamo nella memoria viene fuori l’immagine di un’isola sperduta nell’oceano e il caso lo collochiamo lì, lontano – come si dice – dagli occhi e dal cuore.

Questa operazione ci dà più sollievo che ingoiare un tranquillante. Infatti, una volta isolato il caso, prendiamo subito sonno. Unico problema è che così la coscienza diventa sempre meno vigile e a forza di isolare casi non si accorge che l’isola si va pericolosamente affollando. Tanto per capirci la via che porta ad Auschwitz è lastricata di casi isolati. Casi isolati sono state le aggressioni con goliardici aperitivi all’olio di ricino. Casi isolati sono stati all’origine di massacri spaventosi. Casi isolati hanno preparato le guerre mondiali. E non sono stati casi isolati le atomiche su Hiroshima e Nagasaki?

Così isolati che negli ultimi tempi c’è sempre più voglia di toglierli dall’isolamento e riprovarci. Di conseguenza la cosa migliore è non considerare alcun caso un caso isolato, ma tenere gli occhi aperti e coltivare il pensiero che ogni ferocissimo disprezzo per la vita altrui e perfino per la propria, sia che venga da coloro che sentiamo lontanissimi, sia che venga da quelli che avvertiamo come vicini, è un segnale di pericolo, è il tassello possibile di un mondo disumano.

Questa rubrica è stata pubblicata il 16 febbraio 2018 a pagina 14 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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