13 marzo 2018 18:03

Basta un po’ di autoanalisi e si scopre che, perfino quando abbiamo un caratteraccio, dire sì ci risulta più facile che dire no. Questo perché con il sì la vita scorre senza conflitti e in più ci sentiamo simpatici, le gerarchie in cui siamo inseriti ci portano in palmo di mano, siamo la specie adorata dai capi: subordinati che non fanno storie.

Che bei tempi, dunque, erano quelli in cui l’educazione al sì cominciava fin dalla prima infanzia, molti nelle scuole e fuori la rimpiangono da tempo. Certo, c’è la questione dell’ubbidienza che non è più una virtù. Ma se la comunità dentro cui vivo mi sembra governata da uomini capaci e tutto mi pare che fili liscio, be’, in quel caso ubbidire è un comportamento virtuosissimo. Vero è che l’ubbidienza ci mette poco a diventare assoluta e che quindi, se capita di dover dire un no bello deciso, scopriamo di non averne la forza. Ma allora cosa bisogna fare, dire no a vanvera, a ogni occasione, tanto per tenere in allenamento la volontà?

Abbiamo presente una comunità in cui si dice sempre no? È ingovernabile, o governabile solo riducendo con la forza la gente all’ubbidienza. Forse è necessaria un’educazione robusta al no giusto e incorruttibile, ma che insieme al no, contemporaneamente al no, addestri a proporre alternative ben articolate, per le quali è necessario guadagnarsi il più giusto e incorrotto dei sì.

Questa rubrica è stata pubblicata il 9 marzo 2018 a pagina 12 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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