19 aprile 2017 18:22

“Mario Dondero è uno dei fondatori del fotogiornalismo italiano e la memoria storica di questi nostri ultimi sessant’anni di vita politica e culturale”, si legge in Dov’è Dondero! …a cantare la vita con la macchina fotografica.

Il libro è stato pubblicato da Interattiva ed è nato da un’idea di Danilo De Marco e Aldo Colonnello del Circolo culturale Menocchio, che Dondero frequentava e con cui collaborava. Raccoglie una serie di ricordi, storie e aneddoti scritti da amici e colleghi del fotografo dopo la sua morte, avvenuta a Fermo il 13 dicembre del 2015.

Mario Dondero a Parigi, 1997. (Danilo De Marco)

Conosciuto soprattutto per i suoi lavori in bianco e nero, che definiva il “colore della verità”, Mario Dondero raccontava che avrebbe fatto il giornalista se non fosse “incappato nella fotografia. Il modo per andare oltre la parola”.

Nato a Milano nel 1928, cominciò a lavorare prima come giornalista e poi diventò fotografo, collaborando con molte testate italiane. Viaggiò in tutto il mondo, realizzando reportage sulla guerra in Algeria e sul lavoro di Emergency a Kabul e nella Valle del Panshir, in Afghanistan.

Mario Dondero a Spilimbergo, 1995. (Danilo De Marco)

Ecco alcuni estratti da Dov’è Dondero!:

“A volte mi chiedo se l’ho incontrato veramente. Un signore venuto da altri tempi ma perfettamente a suo agio in ogni tempo, con chiunque e dovunque. A volte penso che in fondo è ancora in giro e prima o poi lo vedo apparire di nuovo. Come in camera oscura, immagine latente”.
Isabella Balena, fotografa

“Il dono di Dondero era quello di riuscire a vivere il momento dello scatto fotografico come occasione d’incontro con la moltitudine dell’umano. (…) Fotografie – le sue – che spesso ignorano tanto la composizione quanto una troppo sofisticata ricerca estetica. Ne perderebbero in autenticità… e l’estetica per l’estetica mi ripugna, diceva. Non c’è traccia di decorazione o di artificio nei suoi racconti fotografici”.
Danilo De Marco, fotografo

La casa di Mario Dondero a Fermo, 2015. (Danilo De Marco)

“Perché se c’era un fotografo che corrispondeva a quello che voleva essere il Manifesto questo era proprio Mario Dondero. Venire al Manifesto voleva dire per lui partecipare ad un “collettivo che lotta”, diceva. “È arrivato Mario”, e allora tutti si alzano dalle scrivanie per correre a salutarlo. È sempre stato così. E lui tra le scrivanie e i computer abbracciava donne e uomini, baciava tutti. E ci fotografava, come se fosse in una passeggiata nella luce accogliente della sua Fermo”.
Tommaso Di Francesco, giornalista

“Ma è all’amico Pasolini, in particolare, che Mario scattò parecchie immagini in quegli stessi anni. Così fu nell’autunno 1962 sul set de La ricotta, in un pratone polveroso e desolante della periferia romana (…). E così, nel 1963, fu anche per le foto scattate al chiuso della sala di montaggio della Rabbia, ispirazione per Dondero di una formidabile galleria di bellissimi primi piani di un Pasolini quarantenne, concentrato nel lavoro e catturato dal suo fotografo in una sorta di sospesa, assorta enigmaticità. E poi ci sono gli scatti realizzati all’aperto sul set on the road di Comizi d’amore, semiserio spaccato dell’Italia del boom”.
Angela Felice, direttrice del centro studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia

Prima dello scatto fuori rotta tra Parigi e Udine, 1994. (Danilo De Marco)

Quante foto ha scattato Mario Dondero? Se lo chiedono innanzitutto alla Fototeca di Altidona, dove stanno rimettendo in ordine il disordinato archivio marchigiano del grande fotoreporter. ‘La nostra è una vera e propria inchiesta’, spiega Pacifico D’Ercoli, uno dei volontari. Si tratta non solo di sapere quali e quante foto emergono
dalle migliaia di casse e scatoloni trasportate dalla sua ultima abitazione alla sede fermana della Fototeca, bensì di rimettere in ordine i reportage, ricostruirne il contesto e le date, verificare se si tratta di foto inedite o meno. Impresa ardua, mancando il protagonista, scomparso il 13 dicembre scorso, anche perché ogni scatto va ben oltre ciò che racconta. A ogni fotografia, persino a quelle mancate, Dondero associava una storia: chi l’ha conosciuto può ricordare il racconto del giorno in cui andò a bussare alla porta dell’inafferrabile Samuel Beckett”.
Angelo Mastrandrea, giornalista

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