07 luglio 2015 16:56

In questo periodo di calura, la gradevole aria condizionata delle sale cinematografiche permette di recuperare film di alta qualità usciti in chiusura di stagione, come l’ottimo e inatteso Diamante nero della regista francese Céline Sciamma, un film che ci dice qualcosa delle cosiddette cités, dove sono confinati i discendenti di più generazioni d’immigrati da quello che un tempo si chiamava terzo mondo. Finalmente ecco un film che si occupa di questo contesto realizzato da un francese, anzi in questo caso da una francese, che da un lato non appartiene agli strati sociali raccontati (come Abdellatif Kechiche, per citare un nome conosciuto anche in Italia), dall’altro gli è in qualche modo vicina, poiché la regista è cresciuta nella provincia di Parigi e la sua famiglia ha origini italiane.

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Diamante nero è stato il film d’apertura della Quinzaine des réalisateurs del festival di Cannes dell’anno scorso: un segno del progressivo affermarsi della regista, dopo l’esordio a Cannes nel 2007 con il divertente e sottile Naissance des pieuvres (mai arrivato in Italia. Perché?) e l’ottimo Tomboy (2011), come Diamante nero distribuito nelle sale italiane da Teodora con buon successo di pubblico e di critica (anche a livello internazionale).

Sciamma indaga l’universo femminile preadolescenziale (Tomboy) e quello adolescenziale o postadolescenziale, come in Diamante nero. Ne indaga i confini, da un punto di vista intimo, ma in un preciso contesto sociale. Confini di età della vita (giovane) e confini identitari (sessuali, o, più in generale, di collocazione della persona in un contesto socioeconomico preciso). Analizza l’universo femminile con toni mai pesanti – a tratti da commedia – ma sempre penetranti e inequivocabili, e mette in evidenza con sapienza il determinismo alla base dei comportamenti individuali, lasciando però alla fine qualche possibilità alla protagonista, in un finale aperto.

Per lo spettatore c’è il piacere di vedere dei personaggi di ragazze adolescenti restituiti con finezza e tenerezza, senza niente della melassa tipica di tanto nostro cinema e, pur non mancando di umorismo, senza ammiccamenti facili allo spettatore con quell’umorismo della battuta che è un altro male endemico del nostro cinema. C’è spazio per i sentimenti e per la loro complessità, sempre in relazione alle condizioni sociali, e pian piano vediamo formarsi dei caratteri umani perché in fin dei conti è un racconto di formazione.

Céline Sciamma racconta una scena di diamante nero


Gli adulti sono praticamente evacuati, fuori campo, un po’ come nei Peanuts di Schulz, per lasciare tutto lo spazio fisico – fisicità dei corpi e degli ambienti, in particolare degli spazi urbanistici – a questi corpi di giovani donne, che, come palline in un flipper, si dimenano in ogni modo per emergere, socialmente ma anche più semplicemente per la loro dignità di donne, di esseri umani.

Bande de filles è il titolo originale. E in francese (come in italiano ma ben più spesso), una “bande” è banda o gruppo di amici affiatati e complici. Tutti sono anche portatori di tensioni, di relazioni conflittuali: tra uomini e donne, tra amiche, tra fratelli e sorella. E, all’opposto delle dissoluzioni dei rapporti umani, vediamo anche le vicinanze, le prossimità, che in parte si vengono a creare proprio attraverso le relazioni conflittuali. Su tutte quelle tra uomini e donne, poiché siamo in un contesto nel quale non c’è ancora una vera emancipazione della donna. Del resto, le donne sono foriere a loro volta di una sorta di prove di forza, fisiche, quasi tribali, mutuate dall’universo maschile. E questo elemento pare complicare ulteriormente i processi di emancipazione.

Le bande di ragazze raccontate da Sciamma, insomma, sono vere. Il film ha molti momenti vivaci, molti eleganti e suggestivi (notevole l’uso dei suoni e delle musiche), ma colpisce soprattutto per la notevole capacità di osservare le attese quasi sistematicamente disattese della protagonista, creando sul piano della regia, di converso, notevoli momenti di attesa, delle sospensioni che creano un senso profondo: forma e contenuto sono simbiotiche. Diamante nero è insomma un film dell’attesa, finale compreso.

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