19 maggio 2016 20:54

Juste la fin du monde è un film claustrofobico ma dove si respira, o meglio si aspira, la forza della vita. Un film concettuale ma caldo. Un film teatrale ma di vero cinema. Un film che cerca la leggerezza nella gravità. La gravità massima. Ma prima di tutto è un film sussurrato, bisbigliato da chi sa di dover morire ma, trattenendosi, fa uscire fuori tutto quanto represso negli altri. Quasi un esplosione, malgrado sé. Dopo Mommy, premiato a Cannes nel 2014, “l’enfant prodige del cinema d’autore”, l’attore-regista canadese Xavier Dolan, sempre più regista e sempre meno attore, propone un nuovo exploit, sia formale sia di contenuti. Chi ha mai fatto prima un film sull’addio alla vita bisbigliato, pudico, discreto? Sembra quasi il rovescio di Le invasioni barbariche, film del 2003 del canadese Denys Arcand.

Just la fin du monde

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Louis, un giovane scrittore interpretato da Gaspard Ulliel, torna a casa per una breve visita dopo molti anni di assenza. Sa di dover morire per una malattia, ma come dirlo agli altri? Quale momento scegliere? Tutto quello che è sopito dal momento della sua scomparsa riemerge gradualmente con forme diverse, tra la madre, la sorella, il fratello, la moglie di quest’ultimo. Dolan, (in)centra tutto sui volti, e in particolare sul volto di Ulliel, e qui sta il primo exploit. All’inizio, quando Louis è in aereo, ci crediamo. Poi dopo meno. Ma dopo di nuovo molto e fino alla fine. Ulliel ha un sorriso gentile e timido quasi permanente, con cui deve riuscire a trasmettere un dolore, una rassegnazione dolce, qualcosa di trattenuto e fragile, una risolutezza che pian piano perde la guerra con l’incertezza. E ci riesce. Ulliel si era rivelato conSaint Laurent, nel ruolo interpretato magnificamente dello stilista francese, nel lungometraggio di Bertrand Bonello purtroppo ancora inedito in Italia (opera nettamente superiore al pur apprezzabile film di Jalil Lespert, uscito anche da noi).

Dolan è vicinissimo ai suoi personaggi e costruisce un dramma da camera partendo dall’omonima pièce teatrale del 1990 di Jean-Luc Lagarce (morto di Aids nel 1995 e al quale il film è dedicato). Anche se in teoria ci si sposta. Dall’aereo alla stanze della casa, dal giardino alle poche sequenze in automobile. In teoria perché siamo nel trionfo dell’immobilità. Si ritorna e si riparte, perché Louis ha l’aereo, ci si sposta un po’ ma si rimane in realtà fermi, mentre Louis, nessuno lo sa, sta per partire per davvero e per sempre. Ma vuole andarsene in pace, non in guerra. Purtroppo quello che arriva è proprio la guerra: lo scrittore non riesce a scrivere la pièce definitiva, quella del suo addio alla vita, ai suoi cari. L’addio rimane inespresso, almeno all’apparenza. Per un’ora e mezza la cinepresa sta addosso ai personaggi, attaccata ai volti. Un privilegio del cinema e non del teatro. E così il film costruito è denso, si libera tutto quello che è stato represso in tanti anni. Non diluito dai brevi momenti aerei da video-clip non estetizzante.

Dolan, autore di regia, sceneggiatura e montaggio, controlla perfettamente tutto. Louis ha un bellissimo scambio con sua madre (Nathalie Baye), di detti e non detti che dicono molto. Ha uno scambio difficilissimo e piuttosto esplicito con suo fratello Antoine (Vincent Cassel) che vuole trasformare lo scambio in scontro a tutti i costi, finendo così per alienarsi tutti gli altri, anche sua moglie. Ma Louis non vuole la guerra. Caino non ucciderà Abele. È giusto la fine del mondo o la fine di un mondo? Il film è stato acquistato dalla Lucky Red che lo distribuirà in Italia. Ma questa è un’opera che il doppiaggio rischia di rovinare totalmente. Quindi se al pigrissimo pubblico italiano non verrà proposto direttamente in versione originale, sarà necessario un lavoro di doppiaggio davvero artistico, degno del miglior teatro. Perché se i suoni, i fruscii sulle giacche e sui materassi sono intensi, sensuali, la madre parla cantando, Antoine urla, Louis sussurra. Le immagini sono compresse, ma i suoni cantano in un movimento unico. Come l’uccellino del finale.

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