11 agosto 2016 17:00

Girato quasi in un cinemascope da film western, L’ornitologo è un film sulla primordialità che è in noi, ma vista come elemento inseparabile della nostra santità. Dopo aver partecipato al festival di Venezia nel 2000 con Il fantasma, che rielaborava l’archetipo di Fantômas in chiave sessuale e gay, il portoghese João Pedro Rodrigues, giunto al suo quinto lungometraggio, si conferma tra i più innovativi autori del cinema contemporaneo.

L’ornitologo si apre con immagini splendide e rare, di uccelli dalle ali nere ma dal collo e becco dai colori variopinti. E prosegue con immagini sontuose, immerse in una luce dagli splendidi colori naturalistici, di un fiume circondato da rocce gigantesche che richiamano quelle del Grand canyon, se non fosse che siamo immersi in un natura verde, verdissima. Ma il film gioca volutamente con la perdita di ogni punto di riferimento, di ogni bussola. A cominciare dalla geografia.

Nebbia, giganteschi fiori rossi di aspetto primordiale, uccelli rari e dall’aria esotica: siamo nella giungla del Borneo? In verità siamo in luoghi nascosti del nord del Portogallo.

Tra fiaba e mito

Il nostro ornitologo, interpretato con grande sensibilità dall’attore francese Pascal Hamy, travolto con la sua canoa dalle acque delle rapide, viene salvato da due ragazze cinesi in campeggio. E questo crea un primo disorientamento. In seguito si scopre che sono pellegrine cattoliche in viaggio per Santiago de Compostela.

Ma sono cattoliche o delle cinesi animiste? Sostengono che nel bosco di notte si sentono urla e suoni agghiaccianti. Del resto anche loro forse nascondono qualcosa di anomalo dietro l’apparenza di fanciulle sperdute nel bosco e Fernando l’ornitologo una notte fugge anche da loro.

L’ornitologo.

L’intero film è una sarabanda anarchica dove il naturalismo filmico non impedisce improvvise esplosioni oniriche da fiaba o parabola mitica all’interno delle sequenze diurne, quasi che il protagonista fosse precipitato in un’altra dimensione temporale.

Onirismo che diventa esplicitamente pittura, o cinema della trasfigurazione, nelle sequenze notturne. Gruppi di uomini travestiti con piume colorate di uccello e con sulla testa strane maschere compiono di notte riti agghiaccianti quanto festosi: due opposti inscindibili l’uno dall’altro, come in fondo è spesso la religiosità pagana.

In seguito il pastorello sordomuto Jesus regala a Fernando da mangiare e bere e poi, nudi dopo un bagno nella riviera, scoprono con sorpresa e semplicità di aver voglia di fare l’amore. E poi appare una colomba bianca, che di giorno lo segue imperturbabile quanto la civetta notturna. E poi amazzoni a cavallo, cervi e cerbiatti in movimento o immobili in pose quasi ieratiche, santuari con statue religiose, animali impagliati sparsi nella foresta.

E infine l’incontro con il proprio doppio, interpretato dallo stesso regista. Ma poco prima Fernando trova morto pugnalato un sosia del pastorello che Fernando, a sua volta, aveva pugnalato a morte accidentalmente. Il sosia, con indosso uno dei costumi piumati visti nelle notti precedenti, si rivela essere il fratello gemello del pastorello.

La ricerca della cristianità in noi non è separabile dal paganesimo, o dalla nostra parte di mostruosità

Nella bellissima sequenza notturna appena descritta tutto si rivela e in qualche modo finalmente si mette a posto. Fernando fa risorgere il doppio-gemello del pastorello, l’equilibrio è ritrovato. I due, mutati (Fernando è ora interpretato da Rodrigues), uguali e diversi, si avviano mano nella mano verso Padova, la città dove morì Antonio di Padova (il francescano portoghese che incontrò Francesco d’Assisi), patrono del Portogallo e tra i santi più celebri al mondo (e al quale il regista aveva già dedicato un cortometraggio).

La ricerca della cristianità in noi non è separabile dal paganesimo, o dalla nostra parte di mostruosità, o, se si preferisce, dal diabolico. Forse la mostruosità non è poi così mostruosa, i confini tra martirio e assassinio, tra odio e amore, tra diabolico e purezza, non sono poi tanto netti. E in fondo la scena finale, visivamente scintillante, trasparente e oscura come un’eclissi, sarebbe potuta piacere al conte di Lautréamont e figurare nei suoi Chants de Maldoror.

Le splendide sequenze delle ombre che si proiettano sulla caverna sono un riferimento tanto al cinema delle origini quanto alle origini dell’uomo (facendo così dell’Ornitologo anche un film sull’arte e sul cinema), passando per il mito della caverna di Platone.

Perfette per un film di reminiscenze e riapprendimento dell’arborescenza dell’età antica che è in noi e che dobbiamo tornare a ricordare: la parte oscura non solo è inscindibile da quella della luce, ma ha una sua parte di luce. Decisamente, la cinematografia portoghese è tra le più belle al mondo e la più bella d’Europa: perché non univoca ma molteplice.

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