09 settembre 2019 17:10

Cominciamo dal Leone d’oro. La giuria internazionale, presieduta dalla regista argentina Lucrecia Martel, assegnando il Leone d’oro a una delle migliori produzioni hollywoodiane degli ultimi anni, il Joker di Todd Phillips, dimostra ancora una volta la capacità della Mostra di attrarre grandi produzioni statunitensi di buona o anche ottima qualità.

E dimostra inoltre, come abbiamo già sottolineato, una selezione dalle tematiche coraggiose e non accomodanti, sul piano politico-sociale, con opere che si offrono alla riflessione e alla discussione. Coraggiosa anche la scelta di inserire nel concorso un film d’animazione come No.7 Cherry Lane – premiato per la miglior sceneggiatura – che vede Yonfan, finora autore di interessanti lungometraggi dal vero, firmare qui un importante esperimento sulla storia di Taiwan, un film della memoria che s’incrocia con quella cinefila. Se troviamo il disegno dei personaggi e l’animazione mediocri, ma temperati da fondali potenti, evocativi e originali, e la carne al fuoco forse troppa, ne salutiamo l’originalità e il coraggio politico.

Così come è coraggiosa e politicamente scorretta, la scelta di inserire in Concorso La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco (premio speciale della giuria), film con aspetti geniali, ma che lavorando sulla dicotomia tra sguardo etico sulla realtà – rappresentato dalla grande fotografa Laura Letizia Battaglia – e sguardo cinico, ci pare che sia quest’ultimo a prendere il sopravvento con risultati discutibili. Ci riserviamo però un giudizio più meditato – visto il rischio concreto dell’overdose di film durante un festival – al momento della sua uscita in sala.

Le lentezze di J’accuse di Polanski si dissolvono di fronte alla potenza della messa in scena

Ottima la scelta di premiare con la Coppa Volpi femminile la marsigliese di origini campane – la Campania ha dominato il cinema italiano alla Mostra, una questione che meriterebbe un articolo a parte – Ariane Ascaride, umile ma più che apprezzabile attrice protagonista dei film di Robert Guédiguian, tra cui questo Gloria Mundi di cui abbiamo già scritto.

Luca Marinelli, vincitore della Coppa Volpi maschile per la sua eccezionale interpretazione del marinaio proletario in Martin Eden di Pietro Marcello, a nostro avviso è un attore che dimostra qui, in maniera forse definitiva, di poter ambire a diventare una possibile icona del nostro cinema anche a livello internazionale, come alcune figure ormai mitiche del cinema italiano degli anni sessanta e settanta.

Ed è di notevole grazia, raffinatezza e maggior profondità di quanto possa sembrare About endlessness, il film dello svedese Roy Andersson che sembra però concepito, anche per la sua brevità, come appendice al Leone d’oro Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Ci pare di conseguenza un po’ superfluo il Premio per la miglior regia che gli è stato attribuito.

Abbiamo lasciato per ultimo il secondo premio in ordine d’importanza, il Gran premio della giuria andato a J’accuse di Roman Polanski, sul caso Dreyfuss, un episodio storico che ha segnato la storia non solo della Francia ma dell’Europa. Lo abbiamo rivisto e il ricordo delle lentezze, a volte un po’ faticose, si è dissolto di fronte alla potenza della messa in scena, a questo mondo rarefatto e sospeso di uomini non vivi (o di spietati uomini non degni, ma è la stessa cosa), che sarà squarciato dalla vita con l’affiorare della verità. E che dimostra, come già la favola dei protocolli di Sion, che gli ebrei sono stati perseguitati da sezioni deviate dei servizi segreti, un mistero sul quale il film contribuisce a interrogarsi.

Film che meritano un dibattito
Si sono poi visti ottimi lavori quest’anno nelle altre sezioni, forse non eccezionali, ma che meriterebbero una copertura maggiore, talvolta un dibattito sui mezzi d’informazione.

Come per esempio nel Fuori concorso, dove è stato presentato l’incredibile
documentario State funeral di Sergei Loznitsa realizzato interamente con materiali di archivio sui funerali di Stalin, letti come summa della disumana manipolazione delle masse e del culto della personalità praticata dallo stalinismo, o Citizen K del
documentarista statunitense Alex Gibney, sulla crudele follia dello zar Putin vista attraverso la terribile vicenda umana vissuta dal miliardario Mikhail Khodorkovsky, perseguitato dal sistema putiniano, o ancora Collective del romeno Alexander Nanau, indagine implacabile sulla corruzione del sistema sanitario romeno e al contempo sulla manipolazione della verità compiuta del potere.

Il lavoro della Settimana della critica è quasi eretico in un contesto italiano ripiegato su se stesso

Così pure in Orizzonti, sezione parallela al Concorso. Oltre ai film premiati – tra cui quello per il miglior film, Atlantis dell’ucraino Valentyn Vasyanovych – meritano la segnalazione opere importanti come il notevole Shadow of water dell’indiano Sanal Kumar Sasidharan, opera possente in termini di messa in scena, atmosfere e drammaturgia – anche se forse un pochino troppo programmatica nel finale – nel denunciare la condizione femminile in India. O ancora il coraggioso Just 6.5 dell’iraniano Saeed Roustaee, tumultuoso film di denuncia, forse un po’ enfatico, ma dal forte sguardo morale, sulla situazione nelle carceri, qui viste anche come specchio della società. Il difetto di Orizzonti è tuttavia di aver rinunciato se non alla follia, quantomeno alla sperimentazione, alla ricerca, come se ne trovano a Cannes o Locarno.

Mancanza alla quale supplisce la Settimana della critica, sezione indipendente diretta da Giona Nazzaro che quest’anno ha presentato alcune opere davvero sorprendenti, come il greco Partenonas di Mantas Kvedaravičius, visionario film sullo spaesamento caotico del mondo in un luogo chiuso, o Scales della saudita Shahad Ameen, che fa uso della metafora e di una forma poetico-onirica per denunciare, anche qui, la condizione femminile.

Il lavoro della Settimana della critica è dunque quasi eretico nel contesto italiano ripiegato su se stesso che contribuisce a creare una dimensione mentale di grande aiuto all’Italia di Salvini e dei populisti di destra, perché idee e visioni nuove non circolano abbastanza. Vorremmo che il festival di Venezia e il sistema dei mezzi di comunicazione dessero possibilità reali, reale visibilità anche a queste opere fin dal festival, invogliando così i distributori – aumentati di numero in maniera significativa negli ultimi anni – ad acquistarli per portarli nelle nostre sale.

Magari con successo.

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