27 settembre 2016 15:22

“È vero, all’odio non si può reagire con l’odio perché altrimenti non si finisce più. Purtroppo siamo in un mondo così maledettamente pieno di odio che è difficile venirne fuori. Però se ognuno di noi facesse un piccolo passo verso gli altri, forse riusciremmo a migliorare un po’ le cose”. Pronunciando queste parole Roberta Cappelli, una delle sopravvissute all’attentato di Nizza del 14 luglio scorso, che nella cittadina francese ha perso i suoceri, Angelo D’Agostino e Gianna Muset, sembra pensarla come il papa. Lei, con decine di altri familiari delle vittime della strage (86 morti, di cui una trentina di fede e cultura musulmana), era in Vaticano, nell’aula Paolo VI, sabato 24 settembre per incontrare Bergoglio.

Il papa ha tenuto un discorso e poi ha abbracciato, scambiato parole e sorrisi, in una parola ha dato conforto a chi è stato colpito da un lutto i cui effetti, lungi dal restare chiusi nel privato, hanno avuto un impatto pubblico straordinario e drammatico. Le parole di Roberta Cappelli e di altri come lei rappresentano allora l’improvvisa, necessaria, assunzione di responsabilità da parte del singolo, chiamato a dare risposte capaci di andare oltre il dolore del momento, che pure in qualche modo giustificherebbe sconforto e rabbia.

Quando Francesco riceve e abbraccia i parenti delle vittime di Nizza, compie certo un gesto cristiano, da pastore, in linea con il magistero che lui stesso va proponendo, ma indica allo stesso tempo un modello di leadership morale, decide di rompere la solitudine dei sopravvissuti e di camminare con loro per indicare un sentiero di pace che, proprio in questa sua irriducibilità, anche di fronte alla morte atroce dei propri cari, diventa opposizione totale al fondamentalismo stragista, che sia di matrice islamica (per quanto questa sia di fatto fragile nel caso di Nizza) o di qualsiasi altra natura. Una lezione di storia e di etica, di politica e di umanesimo, di fronte alla quale le attuali classi dirigenti europee e occidentali sono sorde o non sono all’altezza.

Prevale invece la variabile folle del sondaggio d’opinione e della politica giorno per giorno che porta allo sbandamento e allo smarrimento di ogni rotta. Così le diverse cancellerie naufragano sul burkini per poi essere travolte dalla politica della paura, sia essa agitata da Marine Le Pen, dall’inquietante destra tedesca, dal leader ungherese Viktor Orbán – il quale fa passare per pragmatismo trincee, fili spinati e razzismo – o dal miliardario Donald Trump, una sorta di lord Voldemort del mondo reale, tanto grottesca e fasulla appare la sua figura, se non fosse che si tratta di un candidato con buone chance alla presidenza degli Stati Uniti.

Il dialogo ineludibile
Il 26 luglio, poi, è stato assassinato a Rouen un prete, padre Jacques Hamel. Fautore del dialogo con l’islam, non a caso pianto anche da esponenti musulmani francesi, è soprattutto un sacerdote cattolico ucciso in chiesa. Un martire, nella tradizione e nel linguaggio cristiani, che rischia di essere usato dall’integralismo cattolico e politico per rivendicare – in senso esattamente contrario al suo pensiero e alla sua vita – un ipotetico martirio non in nome del Vangelo ma dello scontro di civiltà. Siamo di fronte a una forma estrema di strumentalizzazione? Certamente, e tuttavia è proprio su questo delicato crinale che si sta giocando una partita decisiva per l’avvenire di questa parte di mondo.

Padre Hamel muore per la ricerca disperata, da parte dei fondamentalisti, di un simbolo religioso che mandi definitivamente in crisi l’occidente: il prete ammazzato nel cuore d’Europa dal gruppo Stato islamico (Is). Questo serviva in primo luogo a colpire un modello basilare di laicità: ovvero la capacità di diverse fedi e culture di convivere secondo le norme condivise di una comune cittadinanza (non a caso l’Is ha colpito sempre con durezza anche i musulmani che non si convertivano a una sorta di integralismo coranico, eretico nei contenuti spirituali). Ma l’altro obiettivo politico era quello di far cadere infine i bastioni della chiesa di Roma, e forse ancor prima quelli del papato, il primo e più deciso oppositore di quello scontro di civiltà il cui fantasma viene agitato ormai da quasi un quarto di secolo dai sostenitori delle identità e dei poteri integralisti.

E non c’è dubbio che, da Giovanni Paolo II a oggi, l’istituzione globale che su questo fronte ha tenuto la bussola e indicato la strada a leader e settori dell’opinione pubblica sia stata la Santa Sede, passando per tre pontefici – con sensibilità e personalità diverse – e differenti stagioni politiche. La ricerca di un comune denominatore tra cristianesimo e islam, il ripetuto appello-anatema a “non uccidere in nome di Dio”, il rifiuto di ogni fondamentalismo, sono stati i punti di riferimento di questa azione. Sembra tuttavia che questa impostazione non sia più sufficiente, che il dialogo tra leader religiosi volenterosi, tra “uomini di buona volontà”, non basti più.

Francesco ha collocato il problema dell’incontro tra popoli e civiltà differenti, spostando l’attenzione sulla questione delle diseguaglianze

Diversi fattori s’intrecciano e determinano uno scenario critico. Tra questi è possibile citarne almeno quattro, sempre più frequentemente messi in luce anche dalla diplomazia vaticana: la durezza della crisi economica globale di questi anni e le sue conseguenze sui paesi europei, sul welfare, sul tenore di vita, sulla disoccupazione e sulla povertà; l’incremento dei flussi migratori dovuto ai conflitti, cioè i milioni di profughi che si lasciano dietro paesi in fiamme, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia (un fenomeno che sta cambiando la stessa natura delle migrazioni); l’aumento dei cosiddetti profughi ambientali, cioè di chi è costretto a fuggire a causa di mutamenti climatici capaci di distruggere raccolti, abitazioni, territori; l’assenza, in ampie regioni del pianeta, di diritti civili elementari e di possibilità di sussistenza minime, con conseguente espandersi di gruppi armati, terrorismo, regimi autoritari.

È in questo contesto che Francesco ha collocato il problema dell’incontro tra popoli e civiltà differenti, spostando l’attenzione sulla questione delle diseguaglianze. Il dialogo, insomma, fondato sulla misericordia e sulla capacità di trovare linguaggi comuni, non può prescindere dalla richiesta di giustizia, dalla denuncia delle sperequazioni, dello sfruttamento, della tratta dei migranti, degli stati che si arricchiscono con le armi, delle nazioni che antepongono gli interessi di parte anche di fronte a conflitti dalle conseguenze umanitarie disastrose. E tale impostazione si salda all’idea di una conversione delle coscienze, a una rivoluzione nel rapporto con il creato, con l’ambiente, con il mondo inteso come intreccio di natura e storia.

Di recente, durante una delle messe celebrate al mattino a Santa Marta, il papa ha detto parole urticanti per qualcuno: “Noi ci spaventiamo per qualche atto di terrorismo”, ha detto. Ma “questo non ha niente a che fare con quello che succede in quei paesi, in quelle terre dove giorno e notte le bombe cadono e cadono” e “uccidono bambini, anziani, uomini, donne…”. Il papa giustifica i jihadisti, è stata l’accusa, rozza ma immediata. Eppure si trattava di un dato di verità: solo se ci accorgiamo di quello che accade “in quei paesi” possiamo avvertire la gravità del problema, prendere coscienza e forse compiere i primi passi per cambiare le cose.

Sul versante opposto del Mediterraneo, quello arabo, da tempo è cominciato un dibattito sulla necessità di riformare l’islam e sul tema dei diritti umani e civili. Su questo aspetto della questione si è espresso Mohammad Sammak, consigliere politico del gran muftì del Libano, nel corso del recente incontro per la pace tra leader delle maggiori religioni che si è svolto ad Assisi: “La cittadinanza di uno stato non si basa sulla tolleranza, ma sui diritti. Al primissimo segno di cambiamento o tensione nelle relazioni, la tolleranza potrebbe portare a una violazione dei diritti umani. La tolleranza è praticata con un certo livello di superiorità – quello di colui che tollera nei confronti di chi è tollerato. A loro volta i diritti sono fondati su eguaglianza e giustizia, e proteggono le relazioni umane e nazionali grazie al rispetto reciproco. Esattamente ciò di cui i nostri stati nazionali hanno bisogno e su cui dovrebbero essere fondati”.

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