13 marzo 2017 11:56

Quattro anni dopo quella sera del 13 marzo 2013, quando il cardinale francese Jean-Louis Tauran annunciò dalla loggia centrale della basilica vaticana l’elezione a vescovo di Roma di Jorge Mario Bergoglio, molte cose sono cambiate. Ma soprattutto a incidere è stata la volontà del papa di trascinare, quasi a forza, la chiesa nel ventunesimo secolo. La profezia del cardinale Carlo Maria Martini, scomparso solo pochi mesi prima, ultimo grande esponente della corrente riformatrice scaturita dal concilio Vaticano II, era ancora lì, come un monito: “La chiesa è rimasta indietro di duecento anni”, aveva detto l’ex arcivescovo di Milano nella sua ultima intervista-testamento.

Francesco ce l’ha messa tutta per smuovere le acque e probabilmente – fosse stato per lui – sarebbe andato assai più avanti ma, strada facendo, si è reso conto che le resistenze interne erano troppo forti, troppe le paure e i poteri consolidati che frenavano. Per questo, pur procedendo anche a strappi, Bergoglio ha dovuto allo stesso tempo sempre ricucire, fermarsi, accettare i rallentamenti, tenere unito per quanto possibile il corpo della chiesa. E già così è stata impresa ardua. E poi ci sono gli scandali che non passano, quelli dove pure il papa argentino, con il gruppo di cardinali che lo coadiuva, fa fatica a mettere ordine, a inaugurare la stagione della trasparenza e a porre uno stop definitivo al clericalismo imperante.

È il caso della vicenda degli abusi sessuali commessi dai sacerdoti, dai religiosi e insabbiati, nascosti per decenni, dai vescovi e dal Vaticano. Storia nota ormai, quasi un cliché che ha consumato e banalizzato il messaggio cristiano, indignato l’opinione pubblica, suscitato proteste di fedeli e prodotto però anche cambiamenti dentro la stessa chiesa. Ma non abbastanza, o non ancora così visibili. Tanto più se, come spiega spesso il gesuita tedesco Hans Zollner, responsabile del centro per la tutela dei minori dell’università Gregoriana, molti preti oggi ancora attivi sono cresciuti con la cultura di trenta, quaranta o cinquant’anni fa, quando ancora prevaleva il criterio dell’omertà, della vergogna, del silenzio, della copertura.

Con il mutare dei costumi e della sensibilità, è venuta meno un po’ alla volta la vergogna di denunciare le violenze subite, le vittime con le loro testimonianze hanno gettato un fascio di luce su tutta la vicenda. Le denunce fanno male, spiega Zollner, ma sono il segno che il muro del silenzio si è rotto, da lì può cominciare un’opera di guarigione. E adesso i princìpi di una educazione all’affettività, alla sessualità dei sacerdoti, alla priorità assoluta costituita dalla tutela dei più deboli, cioè dei minori, si sta facendo strada nei seminari; in alcuni paesi con più decisione, altrove incontrando maggiori resistenze. Il cammino però è aperto, anche perché lungo questo crinale la credibilità della chiesa è precipitata, e lo scandalo ne ha danneggiato la funzione sociale, la possibilità di annunciare il Vangelo e anche le finanze.

Tuttavia, se i passi avanti ci sono stati – e sono stati notevoli rispetto a una quindicina di anni fa – la questione è lungi dall’essere risolta. Intanto per la semplice ragione che vengono alla luce sempre nuove realtà sconvolgenti, come quella indagata dalla Royal commission australiana, la commissione d’inchiesta governativa sul fenomeno pedofilia attiva dal 2013 che ha confermato e ampliato le notizie relative agli abusi nella chiesa. Si è parlato del 7 per cento dei preti australiani responsabili di abusi su minori nell’arco di 60 anni (dal 1950 al 2010, circa 1.880 preti coinvolti) , di 4.444 casi di abuso certificati dal 1980 al 2010, di intere congregazioni religiose devastate dallo scandalo con il 40 per cento dei religiosi accusati di reati connessi alla pedofilia. Statistiche shock che hanno indotto la chiesa australiana a fare pubblica e drammatica ammenda. D’altro canto il caso australiano, come quello irlandese – dove pure si sono susseguite diverse indagini governative – è esemplare poiché in questi paesi le congregazioni religiose gestivano una parte considerevole del sistema scolastico, sostituendo o integrando quello pubblico. E il disastro è stato per questo ancora maggiore.

Qualcosa si muove
Certo, nel frattempo gli ultimi due pontefici – Benedetto e Francesco – hanno preso di petto la questione, redatto e approvato normative severe, parlato del problema, incontrato le vittime, rimosso almeno in parte il clima di complice omertà che copriva vicende tristi e torbide insieme. La Congregazione per la dottrina della fede, incaricata di gestire i processi canonici, tra il 2004 e il 2013, ha ridotto allo stato laicale, cioè processato e spretato per reati di abuso sessuale, circa 900 sacerdoti, mentre stando a cifre diffuse qualche tempo fa, in Vaticano arrivano più o meno 600 nuove denunce l’anno. Segno che qualcosa ormai si muove, ma pure sintomo che la malattia è grave e diffusa, perché se finalmente c’è un’emersione del fenomeno, una parte non piccola resta ancora nell’ombra.

D’altro canto la Congregazione per la dottrina della fede, oggi guidata dal cardinale conservatore Gerhard Müller, fa fatica a smaltire le pratiche, centinaia di procedimenti che richiederebbero un rinnovamento della struttura. La trasparenza, per essere tale, deve infatti portare con sé efficienza, rapidità, quindi giustizia in tutti i casi in cui la cosa si renda necessaria. Uno dei problemi aperti, tuttavia, riguarda la scarsa collaborazione di molti vescovi e di varie conferenze episcopali nell’applicazione delle linee guida proposte dal Vaticano, e di conseguenza nella mancata introduzione di norme interne alle varie chiese locali per favorire la denuncia dei casi e la costruzione di ambienti protetti per i più piccoli.

C’è però anche un altro aspetto rilevante: per scongiurare il fenomeno, la chiesa, dalla parrocchia al Vaticano, dovrà necessariamente aprirsi ai laici, alle donne, far coesistere nello stesso ambiente preti ed educatori, psicologi, teologi e pezzi di società impegnata nella tutela dell’infanzia (come già avviene nel centro della Gregoriana per la protezione dei minori). È nata così, su impulso di papa Francesco, la pontificia commissione per la tutela dei minori, organismo vaticano guidato dal cardinale americano Sean Patrick O’Maley, e all’interno della quale sono presenti laici e donne in numero consistente.

Ed è proprio qui, non a caso, che è nata l’ultima crisi. Di recente si è infatti dimessa dall’incarico che vi ricopriva Marie Collins, irlandese, da bambina vittima di abusi, cattolica: impegnata nella tutela dell’infanzia aveva creduto in papa Francesco. Per questo, forse, le sue dimissioni hanno fatto ancora più scalpore; del resto Collins ha detto chiaramente che l’organismo di cui faceva parte era boicottato dal resto della curia: “La mancanza di cooperazione – ha scritto nel comunicato con il quale annunciava di lasciare l’incarico – in particolare da parte del dicastero più direttamente coinvolto nell’affrontare i casi di abuso è stata vergognosa” . E quel dicastero è appunto la congregazione di cui è prefetto il cardinale Muller.

È presto per dire se le dimissioni di Collins, persona nota e stimata per la serietà con la quale si dedicava a questo lavoro, rappresentano una battuta d’arresto seria per il processo riformatore. Certo è che davvero tutti i nodi stanno venendo al pettine, e tra questi la possibilità di sottoporre a giudizio canonico anche i vescovi colpevoli di aver coperto gli abusi. Si ricorderà il caso drammatico dell’ex nunzio apostolico polacco Józef Wesołowski, accusato di gravissimi e ripetuti abusi che Francesco volle processare in Vaticano, ma il diplomatico morì in circostanze mai del tutto chiarite poco prima che il procedimento prendesse il via. Il papa ha insistito molto su questo punto, producendo anche in questo caso delle norme ad hoc; eppure in curia c’è chi oppone una resistenza passiva che, con il tempo, sta crescendo d’intensità e peso specifico.

Correzione, 22 marzo 2017
Nella versione precedente di questo articolo era scritto che Józef Wesołowski si suicidò.

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