02 febbraio 2015 18:37

Non è facile rappresentare le persone disabili in teatro o al cinema, come tenta di fare il discusso La teoria del tutto, di James Marsh, o come fa il bel film Il giovane favoloso. Il regista Mario Martone è stato criticato per aver esagerato la scoliosi di Leopardi. Io credo che sia proprio la recitazione teatrale ed eccessiva di Elio Germano a dare al personaggio un taglio drammatico, shakespeariano. Mentre una recitazione meramente realistica, come quella di Eddie Redmayne nel ruolo di Stephen Hawking afflitto dalla sclerosi laterale amiotrofica (sla) può risultare meno convincente. Dipende dallo sguardo.

Per i “normodotati” la disabilità è una condizione fisica, corporea, cioè visibile. Ma per chi ha disabilità fisiche, il corpo è quella parte di sé che si vuole ignorare. Il disabile diventa persona soprattutto nelle emozioni, nei pensieri, nella sua forza interiore.

È il mio caso. Una volta facevo lunghe passeggiate per Roma, coprendo distanze smisurate da una parte all’altra della città. Il taxi mi era quasi sconosciuto. Facevo a gara con gli autobus. Ma la vita riserva sorprese. Da un giorno all’altro, nell’inverno di 2002, ho smesso di camminare. Un grave incidente, la gamba e tre vertebre fratturate, una lunga serie di complicazioni e interventi, mi hanno tenuta in ospedale e convalescente per ben più di un anno. Quando mi sono alzata ero un’altra persona: zoppa, esitante, in bilico sui piedi. Non avrei mai più camminato con la noncuranza di una volta. Anzi, la semplice locomozione era già un miracolo.
Bisogna dire che poteva andare molto, molto peggio. Quando un incidente va a toccare il midollo spinale si finisce spesso in sedia a rotelle. Come Lorenzo Amurri, musicista tetraplegico che ha raccontato il suo dramma in Apnea e descrive in un libro recente un pellegrinaggio al santuario di Lourdes, in Francia, in compagnia di un gruppo di malati e disabili italiani. Amurri, scettico e ateo, non ha fatto quella gita in cerca di miracoli: voleva capire come gli altri vivono quel viaggio della speranza.

Ha scoperto che il treno da Roma a Lourdes non era per niente adatto alle persone disabili. Anzi, era insopportabile: lentissimo, scomodissimo e tutt’altro che sicuro. L’associazione che si occupa di portare i disabili a Lourdes soffre di quel pressapochismo che troppo spesso affligge il lato cattolico di questo paese, almeno a mio parere.

Nella mia più modesta esperienza di zoppa cronica con il bastone, in questo paese i disabili devono accettare di essere persone di serie B. Bisognose, sfortunate, persone che accettano umilmente la carità. I disabili esistono perché i cristiani possano fare opere di misericordia. O perché i miracoli siano compiuti. Quanti santini di padre Pio si trovano in un ospedale italiano! Quante volte, durante la mia permanenza in ospedale, ho dovuto sorridere un po’ imbarazzata quando il cappellano è arrivato a confessarmi. Non sono cattolica né credente, eppure sembrava ovvio a tutti che una signora di mezza età come me volesse la consolazione spirituale. Forse soprattutto perché donna. Le donne hanno sempre bisogno di consolazione.
A un certo punto delle mie avventure ospedaliere ho condiviso la stanza con una signora di Pescara. Veniva da una comunità rom residente da molti anni in Abruzzo, cittadini italiani, un tempo allevatori di cavalli, poi venditori di automobili usate. Questa signora soffriva dei postumi di una poliomielite contratta nell’infanzia. Dunque era anche lei disabile. Ma soprattutto era una persona molto fiera.

Mi raccontava che mezzo secolo prima, quando era bambina, suo nonno le proibiva di andare a scuola perché le femmine non dovevano sapere leggere o far di conto, altrimenti non avrebbero trovato marito. Allora lei, bambina di cinque anni, ha imparato a leggere da sola con quel che trovava in casa. Così, da adulta, era molto ben informata sulla sua condizione, al punto da rivolgere ai medici domande puntuali a cui non sempre sapevano rispondere. Non era amata dal personale dell’ospedale. Non era umile. Non era grata per l’assistenza medica, né per la consolazione religiosa. Non era una disabile modello.

Oggi, quando giro per le strade di Roma muovendomi goffamente con il bastone, osservo la gente normodotata che passa in fretta. Ammiro gli “abili” e specialmente quelli giovani, sani e atletici. Largo ai giovani, penso: essere zoppa ti invecchia, e sono disposta ad accettare questo inconveniente. Quel che ho più difficoltà ad accettare sono i sorrisi consolatori dei sacerdoti e delle suore, di chi si sente eletto a consolatore dei deboli. Vorrei, insomma, una considerazione laica per le persone disabili.

Anni fa, nel 1969, sono stata in California per la prima volta. A Berkeley, allora una delle città più progressiste degli Stati Uniti, trovai un disegno urbanistico pensato appositamente per chi non poteva camminare sulle proprie gambe. C’erano centinaia di reduci della guerra di Vietnam, uomini amputati, uomini in carrozzina, che in quell’assolata città californiana avevano trovato spazi per muoversi autonomamente senza barriere architettoniche. Otto anni dopo l’inizio di quella guerra sbagliata e disastrosa, negli Stati Uniti c’era un posto – tra l’altro in una delle città più contrarie a quella stessa guerra – dove gli sfortunati reduci potevano condurre una vita dignitosa.

Non sarebbe meglio se invece della misericordia l’Italia elargisse dignità e rispetto?

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