24 maggio 2015 16:13

All’inizio di maggio i rappresentanti dei taliban e del governo di Kabul si sono incontrati in Qatar per due giorni di trattative informali, alimentando le speranze di una svolta nel processo di pace. Anche se la recente ondata di attentati e violenze ha smentito le aspettative più ottimistiche, effettivamente negli ultimi mesi in Afghanistan sono cambiate molte cose.

Innanzitutto Hamid Karzai, l’uomo che aveva governato il paese dall’invasione statunitense del 2001 e la cui amministrazione era accusata da più parti di corruzione, settarismo e incompetenza, ha dovuto lasciare il potere al governo di unità nazionale formato da Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah dopo le contestate elezioni del giugno 2014.

Alla fine del 2014 è scaduto il mandato delle Nazioni Unite per la missione Isaf ed è stato formalmente completato il ritiro del contingente militare internazionale. Il nuovo governo ha firmato l’accordo che permetterà agli Stati Uniti di mantenere nel paese circa diecimila soldati fino al 2016, che Karzai aveva sempre rifiutato.

Infine, la Cina sembra essersi decisa a fare il passo che tutti gli analisti attendevano con impazienza, ovvero aumentare quantitativamente e qualitativamente il suo impegno nella stabilizzazione dell’Afghanistan per colmare il vuoto lasciato dal ritiro statunitense. Ad aprile Pechino ha annunciato che investirà 46 miliardi di dollari nel vicino Pakistan per realizzare un corridoio infrastrutturale che dovrebbe collegare la provincia occidentale cinese dello Xinjiang con il porto pachistano di Gwadar.

Il piano d’investimenti fa parte della “Belt and road initiative”, con cui la Cina cerca di garantirsi un accesso più diretto ai mercati europei e alle risorse energetiche del Medio Oriente. Per realizzare questo progetto grandioso, però, bisogna prima trasformare il Pakistan in un paese affidabile, e di conseguenza affrontare il problema afgano. Questo permetterebbe inoltre alla Cina di evitare che il caos si propaghi ai paesi dell’Asia centrale e soprattutto allo Xinjiang, dove i rapporti tra le autorità e la maggioranza musulmana degli uiguri sono sempre più tesi.

Il peso dei soldi cinesi ha dato risultati sorprendenti. Ad aprile Islamabad ha stupito tutti rifiutando la richiesta dell’Arabia Saudita, suo storico alleato e finanziatore, di partecipare all’intervento militare contro gli houthi in Yemen. Secondo molti analisti dietro questa mossa c’è Pechino, che preferisce che il Pakistan eviti le avventure pericolose e soprattutto coltivi i suoi rapporti con l’Iran, un altro paese fondamentale per la stabilizzazione della regione. Anche a questo scopo la Cina sta finanziando la costruzione di un importante gasdotto che dovrebbe collegare i due paesi.

Pechino sta investendo molto nel processo di pace, sia direttamente – è stata tra i promotori dell’incontro in Qatar e ne avrebbe appena ospitato un altro proprio nello Xinjiang – che attraverso il Pakistan, che ha contribuito a creare l’organizzazione ed è accusato di proteggere e influenzare la sua leadership. Islamabad ha lanciato una nuova offensiva militare contro le basi dei taliban al confine con l’Afghanistan e si è impegnata a fare pressione perché accettino di trattare con Kabul. Il 12 maggio il premier pachistano Nawaz Sharif ha visitato la capitale afgana e per la prima volta ha condannato le violenze dei taliban, accusandoli apertamente di “terrorismo”. Lui e Ghani si sono impegnati a migliorare i difficili rapporti tra i due paesi e hanno firmato un accordo per la condivisione dell’intelligence.

Nonostante tutti questi segnali positivi, però, la situazione sul campo non è affatto migliorata. L’offensiva di primavera dei taliban si preannuncia come la più sanguinosa degli ultimi anni. Il governo rischia di perdere il controllo della provincia di Kunduz ed è stato umiliato da una serie di sanguinosi attentati nella capitale.

Uno dei motivi è che il Pakistan non è l’unica chiave del conflitto. La sua influenza sui leader dei taliban è molto forte e gli ha già permesso di strappare diverse concessioni. Ma i taliban non sono un’organizzazione monolitica e sono spaccati in diversi gruppi, alcuni dei quali non vogliono la trattativa e preferiscono portare avanti il conflitto scommettendo sul collasso del governo di unità nazionale. Gli elementi più estremisti criticano la relativa moderazione e la rinuncia al jihad globale e sono attratti dal modello dello Stato islamico. Recentemente quest’ultimo ha rivendicato il suo primo attentato nel paese, anche se non è chiaro se i responsabili siano davvero uomini del “califfo” Al Baghdadi o militanti locali che ne hanno preso in prestito il brand. In ogni caso la leadership dei taliban non vuole essere scavalcata e punta ad arrivare a un’eventuale trattativa in una posizione di forza, dopo aver dimostrato che senza la Nato l’esercito afgano non è in grado di tenergli testa.

I taliban non sono gli unici a fare resistenza. Non è chiaro quanto gli sforzi di Sharif siano appoggiati dai potentissimi militari pachistani, che non vogliono rinunciare allo strumento di profondità strategica rappresentato dai taliban. I servizi segreti afgani hanno rifiutato l’accordo con i tradizionali rivali pachistani e il ridimensionamento della collaborazione con l’India, storico avversario del Pakistan. Costruire la necessaria fiducia reciproca sarà molto difficile nel clima di sospetto esacerbato da anni di guerra: c’è addirittura chi sostiene che dietro gli ultimi attentati ci siano New Delhi o Washington, che vorrebbero far saltare il piano sinopachistano per non perdere la loro influenza nel paese. Inoltre molti settori della società afgana vivono da anni grazie all’economia di guerra - dal traffico di droga all’enorme giro di denaro alimentato dalla presenza militare straniera - e temono che la fine delle ostilità vada contro i loro interessi.

Il nuovo ruolo della Cina e la svolta nella politica estera del Pakistan sono fattori cruciali che possono davvero aprire una nuova fase nella partita afgana. Ma l’impressione è che almeno nel breve termine il gioco non diventerà affatto meno violento.

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