04 aprile 2019 14:14

Ian Buruma è nato nei Paesi Bassi e ha vissuto tra Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, insegnando all’università e scrivendo saggi e articoli per giornali, soprattutto sulla cultura asiatica. Tra il 2017 e il 2018 ha diretto la New York Review of Books, un’importante rivista liberal americana. È stato licenziato per aver pubblicato un articolo scritto da Jian Ghomeshi, conduttore radiofonico molto famoso in Canada, accusato di abusi sessuali da più di venti donne.

Nell’articolo Ghomeshi raccontava il suo punto di vista sulla vicenda di cui era stato protagonista. Qualche giorno fa Buruma ha scritto a sua volta un articolo sul Financial Times per dare la sua opinione su tutta la storia e per riflettere su come stia cambiando il ruolo dei mezzi d’informazione. Ammette i suoi errori, in particolare il fatto di non aver contestualizzato l’articolo e di non aver dato spazio alle donne che accusano Ghomeshi: da sempre è soprattutto la voce dei maschi che si sente, su qualunque argomento.

Buruma interviene anche su come i social network siano diventati un elemento di forte condizionamento e di distorsione del dibattito. La polemica sull’articolo di Ghomeshi è scoppiata su Twitter ed è probabile che gran parte delle persone che hanno attaccato Buruma non abbia mai comprato, né mai comprerà, la New York Review of Books. Come è altrettanto probabile che la reazione di lettori e lettrici del giornale sia stata, invece, meno drastica e più articolata.

Ma il punto fondamentale che solleva Buruma è un altro. “I giornalisti devono poter correre dei rischi. La denuncia, a differenza del dibattito, intimorisce e produce conformismo. Un eccesso d’ansia nello sfidare lo spirito dei tempi ha come effetto l’intorpidimento del dibattito pubblico. Ridurre al silenzio le persone che non ci piacciono renderà più facile ad altri ridurre al silenzio anche le persone che ci piacciono”.

Questo articolo è uscito nel numero 1301 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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