14 gennaio 2017 18:00

Olivier Roy, Le djihad et la mort
Seuil, 168 pagine, 16 euro

Nel marzo del 1997, in un’intervista a Peter Arnett Osama bin Laden dichiarò: “Amiamo questa morte per la causa di Allah quanto voi amate la vita”. Due anni prima Khaled Kelkal, autore di una serie di attentati nella metropolitana di Parigi, si era fatto uccidere in uno scontro a fuoco con la polizia senza che il suo sacrificio servisse a fare altre vittime. Da allora, secondo Olivier Roy, il terrorismo è cambiato: i terroristi cercano la morte.

Da questo semplice elemento che diamo per scontato e che invece ha profondamente trasformato le modalità della lotta armata facendo, per certi versi, tornare a tempi molto lontani, Roy trae una serie di importanti conseguenze. Lo scopo principale di chi uccide in nome di Allah non è il trionfo dell’islam sul mondo intero e nemmeno una lotta contro le colpe dell’occidente, ma la morte stessa, che da mezzo è diventata un fine. Non si può quindi parlare di una radicalizzazione dell’islam, ma piuttosto di una “islamizzazione del radicalismo” che va oltre il mondo musulmano. Per questo sono inutili le strategie di deradicalizzazione adottate del governo francese così come il dialogo con l’islam moderato. È fondamentale invece favorire l’ascesa sociale dei musulmani, dargli visibilità e introdurre la religione nel dibattito pubblico, senza lasciarla nelle mani dei più violenti.

Questa rubrica è stata pubblicata il 13 gennaio 2017 a pagina 92 di Internazionale, con il titolo “Morire per la causa di Allah”. Compra questo numero| Abbonati

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