14 giugno 2017 13:20

“Non sappiamo quando cominceranno i negoziati sulla Brexit. Ma sappiamo quando dovranno finire”, ha twittato Donald Tusk, ex primo ministro polacco e oggi presidente del Consiglio europeo. Non sa quando cominceranno i negoziati perché ancora oggi, un anno dopo il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, la prima ministra Theresa May non sa quale posizione assumere.

Pensava di saperlo. Doveva essere una Brexit “dura”, con la quale il Regno Unito avrebbe lasciato sia il mercato interno dell’Unione europea (un libero scambio pieno tra i cinquecento milioni di abitanti dei 28 paesi membri dell’Ue) sia l’unione doganale (che prevede gli stessi dazi nei confronti di tutti i paesi non membri). Sarebbe finita anche la “libertà di movimento” (al fine di limitare l’afflusso di cittadini degli altri paesi Ue) e la Gran Bretagna avrebbe prosperato da sola grazie al suo genio per il libero scambio. Felici loro…

Ma poi May ha organizzato delle inutili elezioni per avere una maggioranza più forte in parlamento, in modo da avere un mandato più forte nei negoziati con l’Ue che dovrebbero cominciare lunedì prossimo, o almeno così ha dichiarato. E invece, dopo una campagna raffazzonata incentrata unicamente su May, il Partito conservatore ha perso la sua maggioranza dopo le elezioni di giovedì scorso.

Compromessi
Adesso è un primo ministro zombi: una “morta vivente” l’ha definita un esponente di spicco dei conservatori. Eppure il suo partito non può ancora disfarsi di lei poiché si trova in piena trattativa col piccolo Partito unionista democratico (Dup, nordirlandese) per avere in parlamento i voti necessari a mantenere al potere l’attuale governo.

Ma anche se May dovesse farcela, la “Brexit dura” non può più esserci. Per ottenere il sostegno degli undici parlamentari del Dup, e anche per mantenere quello dei 13 deputati del Partito conservatore scozzese, dovrà accettare una Brexit molto più morbida, che prevederebbe sicuramente un’unione doganale e forse comporterebbe anche di rimanere nel mercato interno.

Questo potrebbe lacerare il Partito conservatore, visto che i falchi della Brexit vi si opporranno con le unghie e con i denti. Il ministro per la Brexit di May, David Davis, ha già avvisato che l’inizio dei negoziati con l’Ue della prossima settimana potrebbe essere rimandato. Ma la data limite in cui raggiungere un accordo è prevista tra soli 18 mesi, in pratica, e i negoziati saranno estremamente complessi. Non stupisce quindi che Tusk stia perdendo la pazienza.

Entrambi i principali partiti hanno tra le loro fila molti sostenitori dell’uscita dall’Unione

Il referendum sulla Brexit era stato inizialmente promesso per il 2013 dal predecessore di May, David Cameron, al fine di evitare una spaccatura all’interno del Partito conservatore. La devozione di May nei confronti della Brexit oggi ha ancora come principale obiettivo quello di evitare questa spaccatura, ma il resto del paese è andato avanti.

Se il referendum venisse nuovamente organizzato oggi, il risultato sarebbe quasi sicuramente a favore di una permanenza, e non di un’uscita dall’Ue. Il problema è che entrambi i principali partiti hanno tra le loro fila molti sostenitori dell’uscita dall’Unione.

Questi sono infatti una maggioranza all’interno del Partito conservatore, anche se circa metà del parlamentari conservatori sono ancora segretamente contrari alla Brexit. Il Partito laburista di Jeremy Corbyn è altrettanto diviso: almeno un terzo dei suoi elettori aveva votato a favore dell’uscita.

Corbyn non sarebbe arrivato così vicino a far cadere i conservatori se non avesse mantenuto la sua posizione ambigua sulla Brexit nelle recenti elezioni. Molti degli elettori laburisti tradizionali che in queste elezioni sono tornati a votare per il partito avevano sostenuto in passato il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip). Si erano trovati orfani dopo il crollo del partito, ma sono ancora favorevoli all’uscita dall’Ue.

Nessuno dei due partiti, quindi, proporrà un secondo referendum per il momento. Farlo significherebbe alienarsi molti dei loro elettori pro Brexit, e forse perdere le elezioni che probabilmente verranno organizzate prima della fine dell’anno. Eppure il risultato delle elezioni delll’8 giugno apre a un possibile nuovo referendum.

Se il partito conservatore dovesse lacerarsi a proposito del successore di Theresa May, o se il Dup oppure i conservatori scozzesi – favorevoli alla permanenza nell’Ue – dovessero ritirare il loro sostegno, ci saranno nuove elezioni.

I laburisti potrebbero vincere tali elezioni, ma solo se Corbyn convincerà quelli che nel suo partito sono favorevoli all’uscita dall’Unione che farà di tutto per ottenere una Brexit “morbida”. Allo stesso tempo deve persuadere tutti gli studenti e i giovani che hanno votato per la prima volta questo mese (e che hanno votato quasi tutti per i laburisti) che sottoporrà i risultati dei negoziati con l’Ue a un secondo referendum, anche se non può pubblicamente prometterlo adesso.

Si tratta di un equilibrio davvero delicato e Corbyn nutre davvero sentimenti ambivalenti nei confronti dell’Ue. Eppure il risultato definitivo potrebbe essere sia una Brexit amichevole e ragionevolmente morbida (con il Regno Unito che conserva legami stretti con l’Ue, come succede per Svizzera e Norvegia) oppure una rinuncia all’intero progetto della Brexit con un secondo referendum. Che, qualunque fosse il risultato, lascerebbe delle profonde cicatrici per almeno una generazione.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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