08 dicembre 2018 18:13

Di anno in anno, con il suo rapporto annuale, il Censis non solo fornisce un’ottima radiografia dello stato dell’Italia, ma produce uno slogan destinato a scuotere un dibattito mediatico sempre più politicista, autoreferenziale e ripetitivo. Fu così qualche anno fa, quando De Rita prese pari pari dalle analisi lacaniane la diagnosi dell’eclissi del desiderio e la scaraventò su un’Italia ancora avvolta nel regime del godimento berlusconiano. Ed è così quest’anno, con il cinquantaduesimo rapporto che fa perno sul “sovranismo psichico” e mette di nuovo a fuoco il legame che nelle fasi di cambiamento stringe assieme la dimensione politica, quella sociale e quella psichica, individuale e collettiva.

Nel sovranismo, dice in sostanza il Censis, non ne va solo della nostalgia della sovranità nazionale “usurpata” dall’Unione europea e dell’invocazione della sovranità popolare “usurpata” dalle élite. Ne va di una certa mentalità, di certi sentimenti e comportamenti, di una certa configurazione degli individui. Lo si potrebbe dire – è stato detto: anche stavolta il Censis attinge a un’ampia ancorché non dichiarata letteratura – in altri termini: il discorso sovranista ha generato il suo soggetto, fatto a immagine e somiglianza dello stato sovrano perduto che evoca. L’uno e l’altro, lo stato e il soggetto, si sentono assediati da invasori alieni e minacciosi, l’uno e l’altro erigono muri a difesa dei propri confini, l’uno e l’altro nascondono dietro maschere fortificate e irrigidite la loro vulnerabilità e la loro dipendenza da altro e da altri. La forza – e la trappola – del sovranismo sta precisamente qui: nel creare un’illusione di forza e di autonomia, dello stato, del popolo e dell’individuo, a copertura della loro fragilità.

La ripresa inesistente
Il Censis però rovescia il cono: non vede nel soggetto sovranista un effetto del discorso politico, ma nel discorso politico un effetto della crisi sociale. In Italia il tempo s’è fermato: siamo fermi, e più spesso procediamo all’indietro come i gamberi. La ripresa economica intravista nel 2017 non s’è realizzata: “È sopraggiunto un intralcio, un rabbuiarsi dell’orizzonte”. Rallentano gli indicatori macroeconomici, cresce la sfiducia verso le istituzioni e il rancore di tutti contro tutti. Nell’assenza di progetto politico e di intervento statuale, peggiora in ogni campo la vita quotidiana, salvo che per una fascia di pochi privilegiati: la natalità diminuisce, l’ascensore sociale è bloccato, il lavoro manca, le disuguaglianze crescono, i soldi sono pochi (siamo il paese dell’Unione europea dove mediamente si guadagna di meno) e quei pochi stanno fermi in banca, i consumi non sono mai tornati ai livelli pre-crisi. Ma soprattutto, ogni cosa è sulle spalle dei singoli (aumentati del 50 per cento in dieci anni, mentre i matrimoni e le convivenze crollano) e delle famiglie: l’assistenza ai non autosufficienti, la sopravvivenza in un territorio a rischio perpetuo di crolli e frane, lo slalom nella giungla burocratica, la formazione culturale in un paese che non investe nulla sulla scuola e l’università. E per giunta, questo defatigante lavoro di adattamento alla crisi non viene riconosciuto né ripagato in gratitudine da nessuna istituzione.

Sono le radici profonde della delusione, della sfiducia e di un rancore pervasivo ormai convertitosi, scrive il Censis, in una cattiveria diffusa e in una conflittualità latente, “pulviscolare e individualizzata”. Da qui la soluzione del “sovranismo psichico”: un si salvi chi può che si regge sulla caccia paranoica del capro espiatorio, identificato nei migranti e più in generale in qualunque differenza o alterità perturbante. La maschera arcigna dell’io sovrano che presidia digrignando i denti un’identità immaginaria, in realtà destabilizzata dall’incertezza e dall’assenza di prospettive. Un’identità nazionale – “prima gli italiani”– bianca, proprietaria (e, dimentica di dire il Censis, maschile, come dimostra la misoginia imperante che il rapporto stranamente non contabilizza). Che “guarda al sovrano autoritario” come garanzia di contenimento dell’angoscia e di stabilità.

L’illusione traballante del sovranismo
La soluzione del governo sovranista sarebbe dunque l’effetto coerente di questa trasformazione psichica e sociale. “La delusione per il non-cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani e li ha resi disponibili a un salto rischioso e incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora aveva visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. Quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite”. C’è da chiedersi tuttavia, rovesciando di nuovo il cono, se la soluzione politica sarebbe stata necessariamente quella populista-sovranista in presenza di un discorso politico diverso. Se qualcuno avesse dato ascolto all’incertezza invece di rimuoverla nella narrativa trionfale della ripresa e alla precarietà invece di annegarla nella retorica delle start up. Se qualcuno, nella crisi, avesse fatto appello alla solidarietà invece che all’autoimprenditorialità e alla competitività. Se le responsabilità del debito accumulato fossero ricadute su chi di dovere invece che su un senso di colpa collettivo deprimente e mortifero. Eccetera eccetera: a incattivirci, prima del sovranismo psichico e politico, è stato il neoliberalismo, di cui il sovranismo è solo l’effetto perverso. E del resto, già pericolante. La grottesca vicenda della manovra economica ha già dimostrato che il ritorno alla sovranità dello stato-nazione è una beata illusione. Il crollo dell’illusione psichica dell’io sovrano seguirà immancabilmente.

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