06 giugno 2015 12:28

Eravamo abituati a vederla come il simbolo della resistenza alla violenza e alle ingiustizie. Fragile e minuta solo in apparenza, dietro il cancello del giardino della bella casa sul lago Inya, a Rangoon, dov’è rimasta confinata per quasi vent’anni fino al 2010. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha sfidato la giunta militare con un coraggio ammirevole e sacrificato gli affetti (un marito e due figli lasciati in Inghilterra) in nome del popolo che suo padre aveva portato verso l’indipendenza, nel 1947, prima di essere assassinato.

Aung San Suu Kyi durante un comizio a Moulmein, in Birmania. (Soe Zeya Tun, Reuters/Contrasto)

Per questo i suoi sostenitori in tutto il mondo sono increduli di fronte al suo silenzio di fronte alla crisi dei migranti rohingya, la minoranza musulmana che vive in Birmania senza cittadinanza né diritti e che fugge dagli attacchi degli estremisti buddisti a bordo di barconi.

Non se ne capacitano i suoi colleghi premi Nobel, il Dalai Lama e Desmond Tutu, che hanno sollecitato un suo intervento in difesa dei rohingya, che probabilmente non arriverà mai. Non se lo spiegano i suoi ammiratori, che in lei avevano riposto le speranze in un paese migliore. L’icona sembra aver lasciato il posto alla leader politica, pragmatica e calcolatrice, che in vista delle elezioni in programma a fine anno preferisce non esprimersi su questioni “sensibili”.

La maggioranza buddista in Birmania non è solidale con la comunità musulmana, e il timore di Suu Kyi e dei suoi strateghi è che se una sua presa di posizione potrebbe costarle milioni di voti. I più ottimisti credono che sia un sacrificio necessario ma temporaneo e che, una volta al potere, The Lady affronterà la questione con decisione.

I disillusi, invece, prendono atto di quella che probabilmente è l’amara verità: “Gli anni d’oro in cui Suu Kyi era l’icona della lotta per la democrazia e i diritti umani sono finiti”. Il giudizio di Aung Zaw, direttore di Irrawaddy – il settimanale fondato da un gruppo di giornalisti birmani in esilio in Thailandia e per tanti anni la principale fonte d’informazione indipendente sulla Birmania – è netto. “Si è trasformata in una leader politica pragmatica e a volte anche populista. Non vuole alienarsi la maggioranza buddista del paese, lei e il suo partito hanno bisogno dei suoi voti e li avranno”, dice a Internazionale. “Purtroppo non è rimasta in silenzio solo sui rohingya, ma ha completamente ignorato anche altre questioni come la repressione delle proteste degli studenti e gli espropri terrieri. Per questo molti tra gli attivisti si sentono traditi e delusi”, aggiunge Aung Zaw.

“Il suo imperdonabile silenzio la rende parte del problema, non la soluzione”, ha scritto Mehdi Hasan in un duro commento su Al Jazeera. “Non dovremmo aspettarci di più da un premio Nobel? Forse no. Del resto il comitato per il Nobel per la pace ha un passato di riconoscimenti prematuri. Ricordate il premio a Barack Obama nel 2009? Pensavamo che Suu Kyi fosse diversa”.

E invece no. Del resto era stata lei stessa, appena tornata in libertà, a dichiarare che il suo obiettivo era prendere il potere. Eletta in parlamento nel 2012, Suu Kyi spera di poter correre alle presidenziali grazie a una modifica della costituzione che, per com’è oggi, impedisce di diventare presidente a chi è stato sposato con cittadini stranieri o ha figli stranieri. Una clausola tagliata su misura per lei dalla giunta militare nel 2008 e che per ora non sembra sarà modificata. Per Aung Suu Kyi è una fase politica molto delicata e i suoi fan dovranno fare i conti con la realtà.

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