05 aprile 2016 13:24

Ormai tutti hanno un’opinione sull’immigrazione e l’islamofobia. Il problema è che le opinioni di alcuni sembrano essere più importanti di altre. L’ho scoperto all’indomani degli attacchi di Bruxelles, mentre parlavo di politica davanti a un caffè tiepido insieme a un gruppo di profughe che vivono in Germania. “Quando accadono cose del genere o quando scoppiano le bombe abbiamo paura”, spiega Fatima, una donna musulmana fuggita da un matrimonio combinato in Guinea-Bissau. “Queste notizie hanno ripercussioni su di noi, sempre. Peggiorano la nostra posizione in Germania, e la situazione si aggrava dopo ogni attentato”.

Ho incontrato Fatima e le sue amiche in un centro per le donne a Halle, una città della Sassonia-Anhalt in crisi da deindustrializzazione. I muri sono pieni di scritte arrabbiate, e “no all’islam in Europa” si contende lo spazio con “fuori i nazisti”. Qui l’opinione pubblica è spaccata come da una coltellata e la ferita si sta infettando di risentimento razzista e veleni politici. Alle ultime elezioni locali il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd) ha fatto grandi progressi, anche a Halle.

“Sono molto preoccupata da questo sviluppo politico”, confessa Roya, insegnante vicina ai sessant’anni. “Ho paura di non ottenere l’asilo politico. Se dovesse accadere preferirei la morte all’espulsione”.

Fuoco incrociato

Le profughe e i volontari si incontrano regolarmente in questo centro per sostenersi a vicenda. È un piccolo miracolo di comunicazione tra culture. Oggi la conversazione coinvolge cinque persone e quattro lingue diverse. Questo è il lavoro quotidiano di risposta alla crisi ignorato dal dibattito pubblico. Per costruire un rifugio non bastano il cibo e un tetto. Le persone hanno bisogno anche di pazienza, comprensione e amicizia, anche quando si portano dietro traumi talmente profondi da rendere difficile comunicare con loro.

Roya ha il cancro ed è una grande fan di Gesù Cristo, motivo per cui ha lasciato l’Iran e ha chiesto asilo in Germania. Indossa un bracciale di plastica rosa coperto di simboli: di bontà, di resa, di peccato. Mi sorprende come una profuga con una malattia così grave, che vorrebbe solo fare del bene alla società prendendosi cura dei bambini, possa preoccuparsi dei propri peccati. Ma la verità è che ognuno affronta le avversità a modo suo.

Il dio di Roya sembra molto diverso da quello in nome del quale i partiti come l’Afd vorrebbero espellere tutti i profughi dall’Europa. Le donne che s’incontrano in questo centro subiscono il fuoco incrociato dei bigotti e dei misogini di entrambi gli schieramenti, e cercano un po’ di sicurezza. “Non ci sono solo gli uomini musulmani che molestano le donne bianche”, spiega Fatima, con gli occhi bassi. “Ci sono anche gli uomini bianchi tedeschi che molestano le immigrate”.

“Mi dispiace molto per tutto quello che è accaduto di recente, specialmente a Colonia”, confessa Roy, che comunque è l’ultima persona a doversi scusare. “Non siamo tutti così. Ho il sospetto che fosse tutto un piano, come se volessero mettere in cattiva luce i rifugiati”.

Se un profugo attraversa la strada con il rosso non è come quando lo fa un tedesco

È incredibile come la maggior parte degli europei non capisca che i responsabili degli stupri e degli atti di terrorismo in nome di un dio vendicativo sono le stesse persone da cui i profughi scappano. In Germania mi hanno chiesto più volte in che modo le femministe europee dovrebbero rispondere al sessismo dei migranti (in gran parte musulmani), con particolare riferimento alle aggressioni che si sono verificate a Colonia la notte di capodanno.

Io ho le mie opinioni. Sono furiosa perché le donne sono ancora ritenute colpevoli per le violenze che subiscono, sono furiosa perché l’argomento è sfruttato dai conservatori e dai fascisti che s’interessano alla violenza sulle donne solo quando serve ad attaccare i musulmani. Ma io posso permettermi di essere furiosa, perché ho delle basi e soprattutto ho un passaporto. Roya, Fatima e le loro amiche non possono permettersi di essere furiose, quantomeno non in pubblico.

“Noi profughi dobbiamo stare attenti a quello che facciamo”, spiega Roya. “Ogni nostra azione è simbolica. Se un profugo attraversa la strada con il rosso non è come quando lo fa un tedesco. Noi dobbiamo sempre dare il buon esempio, perché la gente ci guarda in modo diverso dagli altri”.

Gesti di comprensione e di traduzione

Per queste donne che cercano di costruirsi una vita nella terra di nessuno tra l’estremismo islamico e il neofascismo europeo, la solidarietà non è negoziabile. Le donne di questo gruppo, migranti e non, sono una risorsa vitale l’una per l’altra. Dovrei dire che in questo spazio qualsiasi differenza di linguaggio, provenienza, età, razza, religione e cultura non conta, perché siamo solo donne che stanno insieme condividendo un caffè e parlando dei propri sentimenti. Ma non è vero. Quello che ci lega non è il fatto che siamo donne, ma il fatto che ci stiamo provando.

In questa conversazione la persona che s’impegna di più è Heike, una tedesca di 25 anni che ha organizzato l’incontro in fretta e furia, ha trovato un luogo d’incontro e in questo momento traduce dal portoghese al tedesco all’inglese e viceversa, in modo che io e Fatima possiamo comunicare. Heike non è il suo vero nome: mi ha chiesto di mantenere l’anonimato. Molte donne che fanno questo lavoro non cercano la gloria.

Gran parte dello sforzo di gestione delle crisi su questa scala è dedicato alla traduzione, in tutti i sensi del termine. In Europa ogni forma di comunicazione diventa sempre più difficile. Le persone normali scivolano sulle incomprensioni mentre l’opinione pubblica diventa sempre più radicale e gli estremisti violenti dominano i notiziari. Quello di cui abbiamo bisogno tutti in Europa – musulmani e cristiani, profughi e cittadini, uomini e donne – non sono solo gesti di compassione, ma anche gesti di traduzione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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