07 novembre 2012 09:20

È da molto tempo che non godo di uno dei diritti fondamentali della società civile: il diritto di voto alle elezioni politiche. Questo diritto fondamentale mi è scaduto (come lo yogurt) nel 1999, quindici anni dopo il mio arrivo in Italia.

Per il governo britannico la decisione di un suo cittadino di trasferirsi all’estero è vista come una specie di tradimento da punire, se il reo non rientra in patria entro un lasso di tempo considerato ragionevole, con la sospensione dei suoi diritti elettorali. L’ultima elezione politica britannica in cui ho potuto votare (per procura) è stata quella del 1997, quando il partito laburista, allora guidato da Tony Blair, tornò al governo dopo 18 anni all’opposizione.

Harry Shindler è un mio compatriota ed è un veterano dello sbarco ad Anzio. Come me, Harry ha scelto di trasferirsi in Italia tanti anni fa (vive a Porto d’Ascoli, sull’Adriatico); come me non ha più il diritto di voto nelle elezioni politiche in patria. Ma a differenza di me Harry, uno splendido novantenne, si è dato da fare trascinando il Regno Unito davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ancora si deve pronunciare sul caso. Intervistata dalla Bbc all’apertura del processo, una portavoce del governo britannico

si difende dicendo: “Ogni volta che si è riunito per considerare la questione, il parlamento era del parere che generalmente, nel tempo, il legame di una persona con il Regno Unito tende a diminuire dopo una lunga permanenza all’estero”. E se il legame non diminuisce? Hard luck.

Come saprete, gli italiani residenti all’estero possono votare alle elezioni politiche italiane senza nessun vincolo temporale. La legge Tremaglia del 2001 ha agevolato la modalità del voto, ha introdotto la circoscrizione Estero e ha regalato le elezioni del 2006 all’Unione di Prodi. Proprio una legge sponsorizzata da un parlamentare di destra.

Personalmente, anche se invidio agli italiani all’estero il diritto di voto e se ammiro lo spirito battagliero del vecchio soldato Harry, non è il diritto di votare in patria che rivendico, bensì il diritto di votare dove risiedo e dove pago le tasse: cioè in Italia. Sì, come tutti i cittadini dell’Unione europea posso votare alle elezioni comunali e a quelle europee nel mio comune di residenza. Ma è il governo, non il comune o il parlamento, che mi condiziona la vita in tante sfere della vita, dal bilancio familiare al tipo di istruzione che mia figlia riceve alla qualità dell’aria che respiro.

Potrei rinunciare alla mia cittadinanza britannica per prendere quella italiana. Forse un giorno lo farò. Ma per me la cittadinanza non dev’essere un passaggio obbligato per avere il diritto di decidere chi mi governa. C’era un famoso slogan della rivoluzione americana che diceva: “No taxation without representation”. È esattamente il mio caso e quello di molti altri, non solo britannici, in un’Europa che dovrebbe, in teoria, garantire gli stessi diritti a quelli che decidono di soggiornare e lavorare in uno stato dell’Unione diverso dal loro stato di appartenenza.

Sono tassato – e molto – senza essere rappresentato. Non capisco perché il tipo di passaporto che possiedo dovrebbe cambiare i miei diritti in questo senso. E non è vero che in tutto il mondo la cittadinanza è il criterio unico per partecipare alle elezioni nazionali: in Uruguay, per esempio, il diritto di voto è esteso a tutti gli stranieri residenti da almeno 15 anni, in Nuova Zelanda votano tutti i permanent residents.

Ecco, mi sono sfogato. E durante il mio sfogo, facendo qualche ricerca su internet, ho scoperto una cosa interessante: esiste un’iniziativa che ha lo scopo di dare a tutti gli europei residenti in un altro stato dell’Unione il diritto di voto, anche alle elezioni politiche. Si chiama Let me vote. Io ho già firmato: vi invito, se ci credete, a firmare anche voi.

Lasciamo perdere poi la questione di chi cavolo voterei in Italia, ammesso sempre che delle elezioni ci saranno. Non vorrei che la mia indignazione si trasformasse in disperazione.

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