26 giugno 2016 14:22

Sei mesi e sei giorni dopo le ultime elezioni legislative, oggi 36 milioni e mezzo di spagnoli sono chiamati a rinnovare 350 seggi della camera e 280 del senato (altri 58 vengono designati direttamente dalle assemblee regionali). Sono le prime elezioni che si svolgono in un paese dell’Unione europea dopo il referendum con cui i britannici hanno deciso di uscirne. I partiti tradizionali hanno tentato di usare la vittoria della Brexit per esorcizzare la dispersione del consenso a favore delle nuove formazioni anti sistema, ma l’impressione è che il voto nel Regno Unito non avrà grande impatto sulle urne spagnole. Soprattutto perché qui, nemmeno i partiti populisti si sognerebbero mai di lasciare l’Europa.

“Gli eventi traumatici di solito fortificano alle urne i partiti tradizionali, che ispirano continuità e stabilità”, riflette Joan Subirats, che insegna scienze politiche all’università Autònoma di Barcellona. Lo sa bene Mariano Rajoy, che ci ha provato. Il 24 giugno, quando il Regno Unito è diventato il primo paese a volersi sfilare dal blocco europeo a sessant’anni dalla sua fondazione, il leader del Partito popolare ha usato le funzioni di primo ministro uscente per dirigere un discorso alla nazione. Con tono istituzionale e contenuto elettorale.

Dopo aver lanciato un messaggio di “serenità e tranquillità” ai mercati, agli imprenditori che fanno affari nel Regno Unito e a Gibilterra, ai cittadini britannici che vivono in Spagna e a quelli spagnoli che vivono al di là della Manica, ha detto: “In questi momenti è particolarmente importante trasmettere un messaggio di stabilità istituzionale ed economica. Non è proprio il momento di alimentare o aggiungere incertezze”. Se non bastasse, la sua vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría ha dichiarato che “i populismi cavalcano la crisi. Bisogna stare attenti”; il ministro dell’economia Luis de Guindos ha aggiunto: “Di fronte ai mercati internazionali, ora serve un governo stabile, capace di ispirare fiducia e di esprimere credibilità. Altrimenti può succedere quello che nessuno vorrebbe succedesse: che l’economia torni a rallentare e che si interrompa il processo di creazione di posti di lavoro”.

Ogni riferimento a partiti e leader con poca esperienza di amministrazione e nessuna di governo è strumentalmente ricercata. L’obiettivo di Mariano Rajoy è quello di perdere meno voti possibile a favore della nuova formazione liberale, Ciudadanos, e del suo giovane segretario, Albert Rivera. L’incubo dei conservatori è che il voto di destra si disperda. “La Brexit è caduta a fagiolo per Rajoy”, sorride Subirats, che precisa: “Almeno è servita a cambiare le aperture dei giornali, che erano tutte occupate dall’ultimo scandalo del Pp”.

Nessun partito euroscettico

Sul fronte opposto, il Partito socialista (Psoe) ha dato più o meno la stessa lettura del voto britannico. Il segretario Pedro Sánchez ha fatto professione di fede europeista e non ha risparmiato le frecciatine al populismo che incombe su di lui da sinistra, quello che in quasi tutti i sondaggi li supera e li sostituisce come seconda forza più votata di Spagna, Podemos. “La Brexit è il frutto della confluenza tra una destra irresponsabile e il populismo”, ha commentato Sánchez, ovviamente offrendosi come unica alternativa a questi due mali: “Il voto britannico ci deve servire da lezione davanti a chi vuole risolvere i problemi dei cittadini a colpi di referendum, come quello che Podemos cerca di organizzare sull’indipendenza Catalogna”.

“È completamente naturale che i partiti tradizionali agitino il fantasma del caos per compattare gli elettori. Ma non dovrebbe servire a molto, in questo caso: in Spagna né Podemos né Ciudadanos sono euroscettici”, dice il professore. Né Albert Rivera né Pablo Iglesias hanno posizioni assimilabili a quelle dei leder di altri partiti radicali, populisti o antistema europei. Per esempio Marine Le Pen o Matteo Salvini, per citarne due.

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C’è una ragione storica che rende Madrid diversa da Londra, da Parigi o da Roma. La ricorda Subirats: “Noi spagnoli siamo tornati alla democrazianel 1977. Siamo entrati nell’Unione europea nel 1986, correndo, cercando di recuperare il ritardo che avevamo accumulato in quarant’anni di isolamento dovuti alla dittatura”.

Eppure le misure di austerità imposte quando i conti del paese sono sprofondati hanno colpito duro. Continua il professore catalano: “Abbiamo sofferto più di altri paesi per la gabbia di ferro delle regole di Bruxelles. Nel 2011, è addirittura intervenuta manu militari, direi, per costringerci a cambiare la costituzione e introdurre l’obbligo a non fare deficit. I tagli che ne sono derivati hanno portato a diminuire del 15 per cento gli investimenti in sanità ed educazione pubblica, per esempio. E tra la gente è cresciuto il disincanto per la mancanza di sensibilità sociale di quest’Europa”.

Podemos l’ha intercettato e dice di voler riformare le regole dell’Unione. Ma non vuole rompere con Bruxelles. Perché, conclude il politologo, “in Spagna sappiamo bene che stare dentro è meglio che stare fuori”.

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