31 gennaio 2016 17:59

Arriva un altro anno e all’improvviso sembra che tutto sia nuovo, e non si può neanche dire che non ci sia niente di nuovo sotto il sole, perché il sole non c’è. Giornate grigie, ottime scuse: a più di quarant’anni di distanza rivedo Cabaret, ed è un piacere e una lezione. Liza Minnelli è incredibile, Joel Grey inenarrabile, Bob Fosse dirige il racconto con un’eleganza che combina musica e parole, mezzi toni e acuti furibondi. Ma in questi giorni la gente e i mezzi di informazione parlano di film come Steve Jobs, Suffragette o Palmeras en la nieve.

Non voglio dire che il passato fosse migliore, visto che in quello stesso 1972, per esempio, uscirono anche Il padrino di Francis Ford Coppola, Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel e Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. O visto che furono pubblicati tre libri perfetti: G. di John Berger, Zama di Antonio Di Benedetto e Le città invisibili di Italo Calvino (e nessuno di Cortázar, Fuentes, García Márquez, Vargas Llosa, Cela). Il punto non è affermare la superiorità di un’epoca su un’altra, ma solo confonderle. Assestare un colpo al culto della novità.

L’attualità è un mito che funziona: i mezzi d’informazione la usano per convincerci del fatto che dobbiamo rincorrere l’ultima trovata dei politici e di altri siliconati che fanno cose per finire in televisione o sui giornali, che vendono grazie a questa superstizione. Ma nessuno ne trae vantaggio quanto le grandi case editrici, discografiche e di produzione, che vivono del fatto che noi siamo convinti che ciò che ci interessa, qui e ora, è quello che hanno lanciato la scorsa settimana.

E i mezzi d’informazione, ovviamente, comprano e collaborano. Magari recensiscono un mio libro invece di parlare di quelli di Calvino o di Berger. E così facendo lavorano per l’industria, più che per i lettori. Perpetuano il mito, lo convalidano, lo ingigantiscono. Datano l’arte, la rendono arte dell’anno, dichiarano – faccio per dire – che l’ultimo romanzo di Ken Follet ci dice di più del primo di Flaubert.

Quando parliamo di libri, film e altri esperimenti, l’idea di passato o presente non ha molto senso

Ma l’aspetto positivo del modo in cui funzionano le fabbriche e le istituzioni della cultura (e il loro limite) è che abbiamo sempre accesso a centinaia di anni di produzione artistica. Per questo, quando parliamo di libri, film e altri esperimenti, l’idea di passato o presente non ha molto senso. Forse ha più senso mettere tutto sullo stesso piano e commentare, guardare e parlare delle cose buone, invece di soccombere alla superstizione.

Che, curiosamente, poggia su una convinzione a cui nessuno crede più. La superstizione della novità è nata con la modernità, quando sembrava evidente che ogni opera dovesse superare quelle precedenti, quando la produzione estetica era concepita come una corsa verso il futuro in cui quello che importava era segnare ogni volta un nuovo record, innovare sempre. La novità era il valore per eccellenza.

Ma non è più così. In tempi postmoderni? Sovracommerciali? Pigri? Le opere non vogliono andare oltre quelle che le hanno precedute: vanno all’indietro, di lato, da nessuna parte, verso loro stesse. E allora un libro che esce oggi può essere scritto con la stessa prosa e le stesse strutture usate nel 1860 e a nessuno sembrerà strano o deplorevole.

La novità non ha più nessun ruolo che non sia quello commerciale. Se questi libri sono uguali a quelli del passato, perché non paragonarli? Perché uno è stato scritto l’anno scorso e un altro il secolo scorso? Perché un autore è in una fossa e l’altro è in un hotel a pontificare? Fesserie, baggianate, affari per pochi, me compreso – ma, per una volta, la cosa mi mette un po’ a disagio, e ne parlo.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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