17 gennaio 2017 15:14

Le citazioni classiche si perdono: pochi collegherebbero il titolo di questa column alla Vita nuova di Dante Alighieri che fece di Beatrice una delle donne cantate di più e meglio dell’ultimo millennio, e del toscano una lingua che con il tempo sarebbe stata chiamata italiano. Molti (io, senza cercare troppo lontano) penserebbero piuttosto all’espressione popolare: “Anno nuovo, vita nuova”. E alcuni di noi riderebbero.

Comincia uno di quei cicli perfettamente illusori che in un’epoca lontana abbiamo deciso di chiamare anni, e quindi in questi giorni festeggiamo una delle nostre superstizioni più persistenti: il fatto che il 31 sia finito qualcosa e che adesso ne cominci una nuova. Pensandoci un attimo, nessuno ammetterebbe di crederci; senza pensarci, ci crediamo tutti. Certe convinzioni funzionano così: senza pensarci, accettando quello che ci raccontano, assumiamo comportamenti che ci farebbero sorridere se ci fermassimo a esaminarli.

Il risultato in ogni caso è simpatico, un po’ selvaggio, primitivo. Ogni fine anno torniamo all’epoca di quegli uomini che, a forza di vedere come il Sole e la Luna e le stagioni se ne andavano e tornavano, immaginavano che il tempo fosse una ruota che girava e rigirava per arrivare sempre allo stesso punto: il ciclo si apriva e si chiudeva solo per riprendere, più e più volte, sempre uguale a se stesso, sempre leggermente diverso. Era un sollievo.

Dati irrefutabili
Ed era un’idea possibile. Nel corso del tempo, diverse culture hanno immaginato il tempo in modi molto diversi. Ma la globalizzazione occidentale ha raggiunto anche il tempo. Adesso sappiamo immaginare solo un tempo che “avanza”, progressivo e lineare, verso il futuro, e non ricomincia mai (per compensare questa privazione, il futuro si riprometteva globalmente migliore del passato: l’hanno chiamato progresso. In così tanti ci hanno creduto che adesso, logicamente, molti non ci credono più: dicono che quei miglioramenti hanno provocato dei disastri, che la tecnologia ha devastato la Terra, ed è vero. Ma ci sono dati irrefutabili: viviamo il doppio di mille anni fa, per esempio, ci curiamo i denti, leggiamo e scriviamo).

Di solito la vita è una successione di rituali, ma in questi giorni si nota di più: il protocollo è più preciso

Il tempo della modernità è arrivato per rimanere; non sappiamo più immaginarne un altro. Eccezion fatta, chiaramente, per l’ultima settimana di dicembre: ogni fine anno riesumiamo quell’idea dell’eterno ritorno, e ripetiamo parole, smorfie, addii per quel tempo “che finisce”, speranze per quello “che principia”.

Un mito è una cosa da poco senza i riti che lo accompagnano: la cosa positiva è che è molto facile abbracciarli. Di solito la vita è una successione di rituali, ma in questi giorni si nota di più: il protocollo è più preciso. Tutto procede secondo una dettagliata sceneggiatura: è comodo. Il rituale fa, disfa, parla al posto nostro, e noi gioiosamente lo lasciamo fare: sono momenti in cui quello che facciamo non richiede nessuna riflessione, perché è avallato dalla sicurezza che per secoli, milioni e milioni di altri esseri umani hanno fatto la stessa cosa. E così sprofondiamo in tronfi luoghi comuni, con un sorriso di pace e amore e acquisti.

È una possibilità. Dicono che la rivoluzione sia passata di moda, i rancori sbocciano ed esplodono, per il regno dei cieli manca un bel po’, Trump è in agguato e in qualcosa bisogna pur credere. Quindi durante questi giorni tra parentesi ci colmiamo di buone intenzioni e immaginiamo che, per una magia tutta legata al calendario, saremo diversi. L’autofinzione, questa settimana, si chiama Vita Nova. Dante, nell’ottavo cerchio, ride a crepapelle.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è uscito sul domenicale del quotidiano spagnolo El País.

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