04 giugno 2018 13:09

Come dovremmo vivere la nostra vita se non vogliamo finire pieni di rimpianti? Oggi la risposta standard a questo interrogativo vecchio quanto il mondo, spesso basata sulle ricerche dello psicologo Thomas Gilovich, è che ci pentiamo di più delle cose che non abbiamo fatto, invece che di quelle che abbiamo fatto. Tuttavia, su questo sono sempre stato un po’ scettico. In fondo si potrebbe riformulare qualsiasi decisione per farla rientrare in una categoria o nell’altra.

Rompere una relazione per imbarcarci in un avventuroso giro del mondo potrebbe essere un chiaro esempio di “fare qualcosa”, oppure potrebbe significare che ci siamo sottratti al duro ma appagante compito di costruire un rapporto che dura tutta la vita. Mettere al mondo un figlio significa chiaramente fare qualcosa, a meno che non lo si faccia per soddisfare le aspettative della società, nel qual caso è un esempio lampante di incapacità di fare le proprie scelte. E così via. Chiaramente, se si vogliono evitare rimpianti, bisogna trovare una formula migliore del semplice “fare qualcosa”.

Per fortuna, l’ultima ricerca di Gilovich, condotta con il collega psicologo Shai Davidai, potrebbe fornircene una. La loro nuova serie di studi, che ho trovato sul blog Research Digest, si basa sulla distinzione tra quello che chiamano il “sé ideale”, la persona che saremmo se realizzassimo tutti i nostri obiettivi e le nostre ambizioni, e il “sé del dovere”, la persona che saremmo se soddisfacessimo tutti gli obblighi che abbiamo nei confronti degli altri e vivessimo una vita moralmente ineccepibile.

La domanda non è cosa vogliamo dalla vita, ma cosa la vita vuole da noi

A quanto sembra, nella maggior parte dei casi, le persone rimpiangono gli errori del sé ideale – in poche parole di non aver cercato di realizzare i propri sogni – più che quelli del sé del dovere, come non essere andati a trovare un parente moribondo o aver tradito il proprio coniuge. E questo non perché siamo tutti terribilmente egoisti, sostengono i ricercatori, ma perché è più probabile che facciamo qualcosa per mettere riparo agli errori del sé del dovere, forse perché ci sembra più urgente o perché ce ne vergogniamo. Dopo un tradimento possiamo impegnarci per salvare il rapporto, oppure decidere di non trascurare mai più i parenti anziani, e così via. I sogni non realizzati, invece, tendono a rimanere dietro le quinte e a tormentarci in silenzio, fino a quando improvvisamente non è troppo tardi.

Gilovich e Davidai sono giustamente reticenti a dare consigli di vita in base alle loro ricerche, ma io non lo sono: questi risultati sono un potente incoraggiamento a cercare di capire cosa vogliamo veramente dalla vita e provare a realizzarlo, anche a rischio di essere giudicati negativamente dagli altri. Ovviamente, la difficoltà principale è proprio capirlo. “Fa’ quello che desideri” rischia di diventare un invito all’impulsività e all’edonismo (provocando rimpianti in entrambe le varianti del sé). È per questo che mi piace fare il giochetto, che trova le sue radici nelle teorie di Carl Gustav Jung, di invertire la domanda e chiedere non cosa vogliamo dalla vita, ma cosa la vita vuole da noi. Se guardiamo oltre i desideri e i capricci del momento, cosa ci sta dicendo il nostro io?

Non sono sicuro che sia importante se dentro di noi c’è veramente, come credeva Jung, un’anima che ha un suo progetto preciso, diverso da quello dell’io, che cerca di far sentire le sue ragioni. Quando ci troviamo davanti a una scelta importante della vita, forse porre la domanda in quel modo può essere sufficiente a eliminare il rumore e ascoltare quella voce tranquilla che sa già cosa fare. E se le diamo retta, è improbabile che ce ne pentiremo.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Consigli di lettura

Contrariamente alla visione stereotipata che ne abbiamo, oggi i filosofi tendono a evitare di rimuginare sul significato della vita. Ma nel suo libro del 2015 A significant life, Todd May inverte questa tendenza. Una vita significativa, sostiene, non è tanto questione di quello che facciamo quanto di come lo facciamo.

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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