17 dicembre 2018 12:48

L’anno scorso, con quella che senza dubbio potremmo considerare una delle battute più caustiche della politica moderna, il ministro delle finanze danese Kristian Jensen, ha detto: “Esistono due tipi di paesi europei: quelli piccoli e quelli che non si sono ancora resi conto di essere piccoli”.

Non aveva idea di quanto fosse corretta quella frecciata rivolta, in modo neanche troppo velato, al Regno Unito. Gli autori di un recente studio hanno chiesto a un campione di persone di 35 nazionalità diverse quale contributo pensavano che il loro paese avesse dato, in percentuale, alla storia del mondo.

Le risposte potevano andare da zero, cioè nessun contributo, a 100, se ritenevano il loro paese responsabile di tutto. La risposta media dei cittadini britannici è stata 55 per cento, inferiore solo al 61 dei russi. Gli svizzeri si sono piazzati all’ultimo posto con l’11, gli americani, nonostante la loro fama di egocentrismo nazionale, si sono accontentati di un modesto 30 per cento. Naturalmente, non c’è modo di stabilire la vera “percentuale di contributo alla storia” di un paese, come fa giustamente notare Jesse Singal su Research Digest. Ma senza dubbio tutti hanno sopravvalutato la propria: messe insieme, le medie di tutti i paesi hanno raggiunto il 1156 per cento.

Un concetto controverso
Basta guardarci intorno per renderci conto che faremmo volentieri a meno di tanto “narcisismo nazionale”, come lo chiamano gli autori dello studio, e anche della sua varietà individuale. Ma il fatto che sia così diffuso (diciamoci la verità, anche la percentuale svizzera è decisamente troppo alta) fa riflettere.

Anche se un eccessivo narcisismo è malsano, sia per le nazioni sia per gli individui, un po’ di sana autostima è naturale, e perfino necessaria. Non sarebbe psicologicamente devastante passare tutta la vita con l’oggettiva consapevolezza di quanto poco noi e il nostro paese contiamo nel mondo di oggi, e nella storia in generale?

Crescere significa prendere gradualmente atto della realtà

Forse il narcisismo nazionale potrebbe essere spiegato con il concetto (senza dubbio controverso) di “realismo depressivo”, la teoria secondo la quale le persone depresse hanno una percezione più precisa della loro capacità di influire sugli eventi di quelle non depresse. Se tutti avessimo la percezione esatta della nostra importanza, la mattina faremmo fatica ad alzarci dal letto.

Il primo a sviluppare il concetto di “narcisismo sano” è stato lo psicanalista americano di origine austriaca Heinz Kohut, ricordando che i bambini considerano istintivamente se stessi, e i propri genitori, l’onnipotente centro dell’universo. Crescere significa prendere gradualmente atto della realtà: rinunciare all’illusione di essere Dio e rendersi conto della validità delle esigenze degli altri, pur mantenendo un forte senso del proprio valore.

In base a questa teoria, il narcisismo diventa un problema solo quando certe esperienze infantili, come la mancanza di empatia da parte dei genitori, ci spingono ad aggrapparci alla fantasia di essere al centro dell’universo anche da adulti. È un modo faticosissimo di vivere, perché la nostra pretesa che tutto e tutti si conformino ai nostri desideri sarà continuamente frustrata dalla realtà. La paura principale del narcisista malsano è che se non è Dio, allora non è niente. Il narcisista sano sa che esiste una via di mezzo: considerarsi leggermente più importante di quanto non lo sia in realtà, ma non tanto da non riuscire a rapportarsi con gli altri (che a loro volta sopravvalutano la propria importanza).

Ci si può sentire “al centro del mondo” senza immaginare di esserlo veramente. Potremmo tutti aspirare al tipo di superiorità rappresentata dal modesto slogan neozelandese: “Di fama mondiale in Nuova Zelanda”.

Consigli di lettura
I popoli dei vari paesi hanno una loro psicologia specifica? Nel suo Pazzi come noi del 2011, Ethan Watters sostiene che ce l’hanno avuta finché la diffusione della cultura americana non ha omogeneizzato il modo in cui il mondo considera la malattia mentale.

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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