13 giugno 2017 17:17

1. U2, Where the streets have no name
È tornato, trent’anni dopo, The Joshua tree, come la reunion con la classe del liceo. Come John Steinbeck in rock. Irlandesi e cactus, chiedi alla polvere, riempi gli stadi, scoperta dell’America, Bono in stato di grazia e The Edge panoramico come Ansel Adams. E la produzione di Brian Eno e Daniel Lanois. E poi i fasti di questa riedizione ampliata, i brani originali, gli inediti, le versioni dal vivo, i remix e le b-side. Una valanga di cose. E il primo accordo della prima canzone è la pietra che fa rotolare tutto nel brivido.

2. Roger Waters, Déjà vu
Tutto già visto, a partire dalla copertina ispirata a Emilio Isgrò, e già sentito. Eppure. La ballata blues tipo Pigs on the wing e gli effetti sonori à la The wall. Quel modo di costeggiare i classici dei Pink Floyd e il suo predicare sui mali del mondo. A tenergli bordone, nel nuovo album Is this the life we really want? c’è Nigel Godrich, cervello sonoro dei Radiohead, che produce e suona, riciclando il sound pinkfloydiano per un rimpasto di quella farina tipo Orwell che Waters domina come un pizzaiolo. E che, nell’era di Trump, ritrova tutta la sua fragranza.

3. Giancarlo Onorato, Il barocco del tuo ventre
La versione colta del soft porn anni settanta; illustrazione erotica animata, traversata da questi pastosi organi elettrici, questa batteria tallonata da un tamburello lubrico, quella voce gutturale sgocciolante e il crescendo finale. Come se fosse stato fatto all’epoca di Gainsbourg, ma da uno più concettuale e di nicchia. Così com’è Giancarlo Onorato. E il concetto del suo nuovo album, Quantum, ha a che fare con l’incontro, la fecondazione e altro. Merita di incontrare il suo pubblico, quello meglio disposto verso nenie ipnotiche e radici imperscrutabili.

Questa rubrica è stata pubblicata il 9 giugno 2017 a pagina 106 di Internazionale, con il titolo “Perché colorare la storia?”. Compra questo numero| Abbonati

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