1. Jamie Saft, SteveSwallow, Bobby Previtewith Iggy Pop, Loneliness row
Nei jazzisti la cura della trasandataggine è tutto, sennò si fa la figura dei primini al saggio di fine anno. Qui siamo in presenza di un trio colto randagio piano-basso-batteria che all’incrocio tra Desperate avenue e Loneliness road cerca il chiaro di luna nelle tonalità della malinconia. Ma se l’album Loneliness row prende quota è grazie a quella vecchia zia punk di Iggy Pop, che aggiunge voce e liriche fatte a uncinetto, con un pathos generoso e bastonato che fa venir voglia di adottarlo.

2. Ani DiFranco, Deferred gratification
E poi c’è Ani, poeta, businesswoman, bisessuale, impegnata, prolifica e stella polare del songwriting che mette insieme le fatiche del quotidiano, le politiche sociali e la capacità di relazionarsi con il suo pubblico. Nell’ultimo album, Binary, Ani si destreggia con la sua parlantina mai banale attraverso forme di funk folk e blues, facendosi spalleggiare, ma mai sopraffare, da nomi black e jazzisti di New Orleans (Maceo Parker, Ivan Neville), che la aiutano a srotolare mood di pensosa intelligenza in forme che resistono all’incasellamento dei generi.

3. Di Maio, Vedrò con mio diletto
Un Vivaldi gelato, meglio dell’uva passa, servito su una glassa di barocco ambient e guarnito da una voce maschile che cavalca gli acuti di quelli che una volta erano i castrati: contralto, controtenore e contro i pregiudizi. In queste sonorità si potrebbe pure scorgere una riedizione sofisticata del Rondò Veneziano da spot di lavastoviglie o da sfilate di moda. O anche certi vecchi film di Peter Greenaway. Tra bravura e kitsch, la voce di Maurizio Di Maio si adagia sulle basi classico elettroniche di Dardust (alias Dario Faini) e ne cava languore, malattia, estasi.