01 maggio 2019 13:18

1. Fulminacci, La soglia dell’attenzione
“Un poco vile, un poco pigro, ultimamente stanco io sono l’ultima cosa che vuoi come compagno di banco”. E invece come cantautore fresco, diretto, confessionale e incline a condividere storie di contrabbando insieme agli stati d’animo che gliene derivano, Fulminacci, pur nuovo a quest’arena di canzonette, si colloca nella parte alta del tabellone. Romano del 1997, dopo un paio di giri di riscaldamento esce con La vita veramente, album pieno di sé come ogni cosa che fa. Però “che bella serata, che buona la gricia che buone canzoni”.

2. Beck, Saw lightning
Per uno che spunta dal nulla, fulmineo, eccone un altro che mancava da una cifra, specie in versione così energetica: il Beck trascinante eppure deprimente di Loser si allea con Pharrell Williams, lanzichenecco da hit virale dei vari Get lucky e Happy. E ne esce una cosa esilarante, come un blues di un Lightnin’ Hopkins elettrificato con un sound system da festa in terrazza (vale anche come pubblicità delle nuove cuffie di Dr. Dre). È come un party preventivo per il nuovo album Hyperspace che fa sperare in un grande ritorno di questo lestofante lo-fi.

3. Gran Bal Dub, Al festin
Restando in tema di feste, continua a ribollire anche il side project danzereccio di Sergio Berardo, leader dei Lou Dalfin, insieme a Madaski, il dubmaster di Pinerolo responsabile dei suoni dancehall di Africa Unite e altri. L’album Benvenguts a bòrd spinge sul tasto della danza, dei gran rondò di ghironda che c’erano una volta a nordovest, nelle valli piemontesi (e in minima parte liguri), in cui resistono la lingua, la cultura e il combat folk occitano. Musica quasi celtica, ritmiche giamaicane. Una minoranza linguistica che balla per la sopravvivenza.

Questo articolo è uscito nel numero 1304 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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