06 aprile 2017 12:02

Quando l’amministratore delegato della Cina spa incontra il capo della Trump corporation, c’è aria d’affari. Ma il vertice tra Xi Jinping e Donald Trump del 6 aprile a Mar-a-Lago, il club golf del presidente statunitense in Florida, non è un semplice incontro d’affari: le relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti sono uno dei cardini degli equilibri del ventunesimo secolo e il minimo che si possa dire è che, dopo l’elezione di Trump lo scorso novembre, non siano ancora del tutto stabili.

Da candidato repubblicano, e poi da presidente, Donald Trump ha fatto della Cina uno dei suoi bersagli preferiti, rimettendo a un certo punto in discussione il principio della “Cina unica” che è alla base delle relazioni sino-americane, minacciando Pechino di tassare ulteriormente le sue esportazioni verso gli Stati Uniti, di bloccare le sue navi nel mar Cinese meridionale, dove Pechino sta piazzando delle contestate installazioni militari, o ancora accusando la Cina di non fare abbastanza per calmare gli ardori nucleari e militari del suo turbolento vicino e “protetto”, la Corea del Nord.

Due tendenze contraddittorie
Nei fatti, queste tensioni iniziali, che hanno sorpreso la Cina, si sono calmate una dopo l’altra. Donald Trump ha finito per accettare l’idea della “Cina unica”, ha messo da parte le sue minacce sul mar Cinese meridionale e, pur restando vendicativo, ha invitato il numero uno cinese a Mar-a-Lago per concedergli lo stesso trattamento “privilegiato” riservato al primo ministro giapponese Shinzō Abe, un fedele alleato di Washington.

Alcuni analisti, a Washington, ritengono che questo incontro sia prematuro dal momento che l’amministrazione Trump non ha ancora davvero definito la sua politica cinese, sospesa tra due tendenze contraddittorie. Altri, come Bill Bishop, responsabile della newsletter Sinocism a Washington, sostengono che “il dialogo sia meglio del silenzio”.

Tanto più che non sono mancati i contatti non ufficiali. Il Washington Post ha infatti recentemente rivelato che Henry Kissinger, l’uomo dei primi rapporti con la Cina, che hanno portato allo storico viaggio di Richard Nixon a Pechino nel 1972, è ancora attivo nel 2017 (a 93 anni). “Dear Henry” si è recato a Pechino per conto della nuova amministrazione e ha permesso l’apertura di un “canale” di discussioni tra l’ambasciatore cinese a Washington e l’influentissimo genero di Donald Trump, Jared Kushner. Lo stesso Jared Kushner che, come hanno scoperto i mezzi d’informazione statunitensi, era in affari con alcune aziende cinesi fino a pochissimo tempo fa.

La relazione tra la Cina e gli Stati Uniti è complessa e multiforme, e non sarà risolta con un unico incontro e in un quadro idilliaco, nel quale le due coppie presidenziali si muoveranno in maniera attentamente studiata, visto che le mogli dei due capi di stato sono state invitate a prendere parte a questa sessione di riavvicinamento diplomatico.

Interessi comuni
Trent’anni fa gli scambi tra gli Stati Uniti e la Cina erano ridotti al minimo e gli investimenti reciproci erano inesistenti.

Dopo tre decenni di fenomenale crescita cinese, gli scambi commerciali eccedono i seicento miliardi di dollari all’anno in entrambi i sensi, con un deficit abissale per gli Stati Uniti. Tutte le aziende della classifica Forbes 500, che raggruppa le più grandi imprese statunitensi, hanno investito in Cina e sempre più cinesi investono o riacquistano aziende negli Stati Uniti. La Cina inoltre dispone di oltre 1.100 miliardi di dollari di debito americano sotto forma di buoni del tesoro statunitensi.

Questa crescente interdipendenza non è mai esistita con l’ex Unione Sovietica né esiste oggi con la Russia. Per fare un paragone, le esportazioni statunitensi in Russia sono arrivate nel 2013 a undici miliardi di dollari, ovvero lo 0,1 per cento del pil statunitense, e le importazioni a 22 miliardi. Sono delle somme insignificanti per gli standard americani e che fanno sì che le relazioni tra Washington e Mosca restino perlopiù strategiche e prive della complessità che hanno acquisito con Pechino.

È un dato fondamentale, soprattutto per un presidente come Donald Trump, che si presenta innanzitutto come imprenditore, “deal maker” e negoziatore.

I dirigenti cinesi non vogliono una guerra commerciale con Washington e cercheranno di ‘comprare’ la benevolenza di Trump

La questione si pone quindi in termini più crudi e anche più pragmatici.
In che modo gli Stati Uniti possono ridurre il loro deficit commerciale di oltre trecento miliardi di dollari con la Cina?

In che modo possono riportare nel proprio territorio parte della produzione oppure ridurre la quota delle componenti cinesi nell’industria statunitense e restare così fedeli allo slogan “America first” di Donald Trump?

Come imporre, infine, questa famosa “reciprocità” delle relazioni economiche con la Cina, di cui si sentono gli echi anche nella campagna presidenziale francese senza passare necessariamente da una guerra commerciale devastante per tutti?

I dirigenti cinesi, che non vogliono una guerra commerciale con gli Stati Uniti e neppure un braccio di ferro che potrebbe indebolire la loro crescita già di per sé in calo (resta comunque del 6-7 per cento) e il delicato cambiamento di “modello politico” che stanno attuando, cercheranno sicuramente di “comprare” la benevolenza di Trump portando il loro sostegno al programma d’investimenti infrastrutturali e industriali auspicato dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Il miliardario Jack Ma, principale imprenditore cinese in campo digitale, aveva già compiuto un passo in quella direzione quando era stato ricevuto da Donald Trump prima dell’insediamento alla Casa Bianca.

Per farlo, niente di meglio di un grande annuncio con molti zeri, per addolcire l’atteggiamento dell’amministrazione Trump. La cosa non risolverà i problemi commerciali e del debito, ma consentirà al presidente di dire ai suoi elettori che sta mantenendo le promesse.

Le rivalità strategiche
Anche se interdipendenti, i due paesi restano comunque rivali strategici. Per quanto sia protezionista e nazionalista, poco interessato al tradizionale ruolo di “gendarme” degli Stati Uniti nel mondo, Donald Trump sta dando dei segni di progressivo allineamento su posizioni repubblicane più classiche a proposito dei grandi dossier di politica estera.

Tra le questioni ereditate dal passato c’è il ruolo dominante occupato dagli Stati Uniti nella zona del Pacifico dalla fine della seconda guerra mondiale.

Questa posizione egemonica, insieme alle alleanze militari forti con il Giappone, la Corea del Sud e vari paesi del sudest asiatico oggi è contestata da Pechino. La Cina, ridivenuta potenza economica e politica di spicco, rivendica il rango di grande potenza di un’Asia tornata asiatica.

Pechino aveva creduto che questo momento fosse arrivato quando Donald Trump, in un gesto considerato un grande regalo alla Cina, aveva ritirato il suo sostegno al Partenariato trans-pacifico (Tpp) da cui la Cina è esclusa, e sembrava prendere le distanza dai suoi alleati giapponesi e sudcoreani, affermando che avrebbero dovuto provvedere alla loro sicurezza oppure pagare Washington per farlo.

La questione della Corea del Nord si trova in cima alle priorità delle discussioni sino-americane

Da allora Donald Trump ha rassicurato i giapponesi e ha soprattutto mostrato che gli Stati Uniti non si sarebbero ritirati dal “teatro” asiatico, installando lo scorso mese in Corea del Sud il sistema di missili antibalistici Thaad (Terminal high altitude area defense) per difendersi dalla Corea del Nord. Una decisione che ha scatenato la collera di Pechino, secondo cui in questo modo gli Stati Uniti modificano l’equilibrio strategico dell’Asia, danneggiando la sicurezza della Cina.

Questa rivalità ha tutto per diventare esplosiva, viste le frequenti tensioni relative agli isolotti militarizzati da Pechino nel mar Cinese meridionale, l’aumento del bilancio della difesa cinese e le paure dei paesi asiatici di fronte a quelle che percepiscono come velleità espansionistiche della Cina.

La questione della Corea del Nord si trova in cima alle priorità delle discussioni sino-americane: il regime di Kim Jong-un ha accelerato i suoi sforzi per dotarsi, nel giro di pochi anni, di una capacità balistica in grado di minacciare e colpire, eventualmente con delle testate nucleari, i territori della Corea del Sud, del Giappone e soprattutto Stati Uniti.

Washington ha reso noto il suo fastidio alla vigilia del vertice di Mar-a-Lago, minacciando di colpire unilateralmente le installazioni militari nordcoreane se Pechino non avesse agito urgentemente. Il che basta per agitare lo spettro di un grave conflitto, più di sessant’anni dopo la fine della guerra in Corea (mai conclusa da un trattato di pace, va sottolineato), in cui le truppe statunitensi e quelle cinesi si affrontarono per tre anni.

La personalità di due eredi
L’ultimo aspetto riguarda le due personalità che (finalmente) si conosceranno. In teoria tutto divide il presidente del Partito comunista cinese da quello della Trump corporation, recentemente tramutatosi in capo di stato. Tranne una cosa. Sono entrambi degli eredi: uno di un compagno d’armi di Mao transitato poi dalla meritocrazia cinese e l’altro di un padre imprenditore legato al “sogno americano”.

Tra l’impulsivo Donald Trump, l’uomo che twitta più veloce della sua ombra e fatica a gestire un potere che gli oppone resistenza, e il placido Xi Jinping, che concentra nelle sue mani più potere di qualsiasi altro dirigente cinese dai tempi di Mao Zedong e Deng Xiaoping, bisognerà trovare una lingua comune.

E questa lingua può essere quella degli affari. Perché se Xi Jinping è soprattutto e prima di tutto un capo politico, è anche vero che guida un paese divenuto il campione mondiale del capitalismo di stato, e dà spesso l’idea che l’ufficio politico del Partito comunista cinese funzioni come un consiglio d’amministrazione. Donald Trump ha fatto il cammino opposto, passando da capo d’azienda a comandante in capo della principale potenza mondiale.

Ci sono troppi interessi in ballo per pensare che i due non s’intendano. E questo anche se Donald Trump annovera, nella sua eterogenea squadra di collaboratori, alcune voci influenti che sognano un’apocalisse, così come a Pechino ci sono persone che sognano di rompere i rapporti con questo partner che un tempo veniva chiamato “imperialismo americano”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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