13 luglio 2018 12:18

E se per comprendere il fenomeno Trump fosse necessario allargare lo sguardo, considerando lo stato del mondo e non solo la psicologia del presidente degli Stati Uniti? Si può essere sconvolti dalla brutalità del capo della prima potenza mondiale, dal suo modo di maltrattare alleati e avversari, di umiliare leader democraticamente eletti e dalla sua fascinazione per i despoti. Rimane il fatto che Donald Trump è a immagine e somiglianza del particolarissimo momento strategico attuale.

Gli europei, o meglio quanti tra loro rimangono legati al sogno dei padri fondatori dell’Unione, hanno fatto molta fatica a comprenderlo e ad accettarlo, tanto l’evoluzione del mondo è contraria alla filosofia europea del compromesso e della ricerca di consenso. “L’Europa è una fabbrica di compromessi”, riassumeva a suo tempo Jacques Delors, l’ultimo dei grandi leader di questa nave alla deriva.

La difficoltà che abbiamo con Donald Trump è che il presidente degli Stati Uniti non cerca alcun compromesso, non “fa prigionieri” come si dice negli stati maggiori, e considera i rapporti di forza internazionali solo sotto l’ottica della vittoria per ko. Il presidente francese Emmanuel Macron lo ha sperimentato sulla sua pelle, tentando di ammorbidire, per non dire sedurre, il miliardario che è, per questo, il simbolo della nuova epoca nella quale siamo entrati senza annunci, nella quale i rapporti di forza brutali sostituiscono la regolamentazione internazionale.

Non è una cosa nuova, ed è anzi il marchio di fabbrica dei cambiamenti d’epoca, in cui le regole del gioco precedenti sono crollate e i nuovi attori non hanno ancora definito, spesso in maniera dolorosa, il nuovo codice di comportamento.

Macchina ingolfata
La guerra fredda offre un buon esempio di una simile rottura. Gli alleati della seconda guerra mondiale, statunitensi e sovietici, avevano dato l’illusione di voler creare un nuovo mondo fondato sulla regolamentazione, favorendo così la nascita delle Nazioni Unite, il 24 ottobre 1945 a San Francisco. Era ancora l’epoca del “mai più!”.

Ma la macchina si è ben presto ingolfata sotto gli effetti della rivalità tra le due superpotenze: “Le Nazioni Unite hanno davvero funzionato nel modo sognato dai suoi fondatori solo per… sei mesi”, mi ha confidato un giorno l’irlandese Sean McBride, fondatore di Amnesty international e premio Nobel per la pace, che ha partecipato ai primi passi dell’organizzazione mondiale.

La logica della guerra fredda ha presto contaminato i rapporti internazionali, in Europa centrale e orientale, dove il vittorioso esercito sovietico ha favorito l’ascesa di regimi comunisti, e in Asia, con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950 causata da Kim II-sung, il leader nordcoreano che aveva convinto Stalin e Mao a sostenerlo. Ma gli statunitensi erano convinti che fosse il primo passo di Mosca per la conquista del mondo e sono entrati in guerra.

Servì più di un decennio prima che le due grandi potenze dell’epoca si rendessero conto di avere la capacità di annichilirsi a vicenda, oltre che di distruggere il resto del pianeta, e negoziassero una loro coesistenza all’interno di un equilibrio di forze. Da quel momento, dopo aver sfiorato lo scontro nucleare durante la crisi dei missili di Cuba nel 1962, Washington e Mosca si sono date battaglia solo per interposta persona, tramite altri paesi, in Africa, Asia, America Latina o in Medio Oriente. Ci siamo dimenticati del lungo periodo d’instabilità, di esperimenti e di rischio rappresentato dalla prima parte della guerra fredda, ricordandoci solo di questo “equilibrio del terrore” che ha, di fatto, preservato il mondo da una catastrofe nucleare fino al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.

L’attuale periodo presenta, sotto molti punti di vista, alcune similitudini. L’ordine “post-guerra fredda”, che ha visto gli Stati Uniti come unica “iperpotenza” (come li ha definiti l’ex ministro degli esteri francese Hubert Védrine), è progressivamente sfumato, senza clamore, lasciando il posto a un caos progressivo sempre più tangibile.

In questo nuovo contesto geopolitico, le regole del gioco di ieri non valgono più

Sono così emersi dei nuovi “poli”, alcuni di ritorno come la Russia di Putin, data per spacciata troppo presto durante il suo declino negli anni di Eltsin, o come la Cina odierna, guidata da un uomo dai poteri illimitati come Xi Jinping. O come quelle potenze regionali dalla sicura autonomia strategica, come l’Iran o la Turchia.

In questo nuovo contesto geopolitico, le regole del gioco di ieri non valgono più. Le Nazioni Unite, che negli anni novanta sembravano poter riprendere le ambizioni dei suoi esordi, sono di nuovo paralizzate. E la colpa non è di Donald Trump, malgrado il disprezzo per il sistema multilaterale espresso dalle azioni del presidente degli Stati Uniti: era già evidente all’epoca della sua elezione, ma lui non ha fatto niente per migliorare le cose.

La guerra in Siria è stata un’illustrazione di questa crescente paralisi. Dal 2011 l’Onu è rimasta bloccata dalle logiche di potere, al punto che la Francia, insieme al Regno Unito e agli Stati Uniti, ha deciso di rispondere all’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad senza attendere l’autorizzazione delle Nazioni Unite.

Donald Trump è emerso in questo nuovo contesto globale, portato al potere da un’ondata populista e nazionalista sottovalutata

I ripetuti veti opposti da Mosca per proteggere Damasco ricordano il passato e hanno indebolito l’autorità del sistema internazionale. Donald Trump è emerso in questo nuovo contesto globale, portato al potere da un’ondata populista e nazionalista sottovalutata. Il presidente degli Stati Uniti non ha creato questo ambiente deleterio, ma ha dato il suo contributo. Contrariamente a quello che si dice talvolta, Trump non è isolazionista, ma unilateralista, il che non dispiace ai nazionalisti di ogni tipo i quali, al di là delle loro differenze, coltivano tutti uno stesso odio per il sistema multilaterale.

Gli europei hanno creduto per un certo momento, come peraltro gli analisti progressisti della stampa statunitense, che Donald Trump fosse solo un buffone, che sarebbe poi stato rimesso in riga dagli “adulti” della sua amministrazione, perlopiù generali pluridecorati. Oggi sappiamo che non è affatto così, e che il presidente degli Stati Uniti è in grado di portare avanti il suo programma e le sue ambizioni, ai danni del vecchio ordine.

Un risveglio brutale
Nel 2014 gli europei hanno assistito al ritorno delle ambizioni della Russia, in grado di annettere porzioni di territorio del suo vicino ucraino senza preoccuparsi della legalità internazionale. Nel 2018 devono fare i conti con un alleato statunitense che li disprezza e li umilia, come ha fatto nello scorso G7 e poi durante il vertice nella Nato a Bruxelles.

Lo scontro è violento per gli europei, a loro volta divisi, e con al loro interno governi che condividono la visione di Trump, come accade a Budapest e soprattutto, fatto simbolicamente più preoccupante, a Roma. La cosiddetta crisi dei migranti ne è l’emblema, a livello europeo come per ciascuna delle società degli stati membri.

Questo risveglio è brutale e pone una domanda esistenziale: in questo mondo nuovamente improntato ai rapporti di forza, cosa diventa l’Europa, o quel che ne rimane? Possiede ancora la volontà e quel minimo di unità necessarie a raccogliere la sfida? Se la risposta è affermativa, deve dimostrarlo in fretta, prima che i principali attori di questo nuovo “grande gioco” mondiale non pensino che essa appartiene al passato, quello della regolamentazione e del multilateralismo. Se questo non accadrà, sarà spazzata via da tutti coloro, e oggi sono tanti, che auspicano il ritorno della legge del più forte.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it