01 ottobre 2018 11:41

Shakespeare non avrebbe mai scelto Theresa May o Boris Johnson come personaggi principali di una delle sue tragedie, ma di sicuro sarebbe stato ispirato da quello che sta accadendo adesso nel Regno Unito, in un contesto fondamentale per il futuro di Londra.

La conferenza annuale del Partito conservatore che si è aperta il 30 settembre a Birmingham offre lo spettacolo di un partito al potere confuso e diviso, a pochi mesi dalla scadenza del 29 marzo che segna l’avvio effettivo della Brexit, la separazione del Regno Unito dall’Unione europea. La premier Theresa May sa che a Birmingham trova più nemici che a Bruxelles, e non è sicura di conservare l’incarico fino alla fine della settimana.

Al momento non si intravede un accordo, anche se i negoziatori hanno trovato un’intesa sul 90 per cento dei punti da risolvere in questo complesso divorzio. Il problema è che il restante 10 per cento comprende gli argomenti più spinosi, in particolare la questione della frontiera tra l’Irlanda del Nord e l’Irlanda, alimentando una vera crisi di nervi tra i conservatori.

Valutare i rapporti di forza
Resta meno di un mese (ovvero molto poco) per concludere il negoziato sulla separazione tra Londra e l’Unione, sancito da un testo che prima di entrare in vigore dovrà essere approvato dai parlamenti dei 28 stati dell’Europa unita e da quello di Strasburgo.

La conferenza di Birmingham permetterà di valutare i rapporti di forza all’interno del partito di governo tra chi vuole un accordo a tutti i costi per garantire una transizione senza scossoni e quelli che preferirebbero una Brexit “dura”, ovvero la possibilità di procedere senza un accordo piuttosto che accettarne uno sfavorevole, anche a costo di ritrovarsi nei guai il 29 marzo.

Gli europei, fatto abbastanza raro, sono rimasti uniti, per difendere gli interessi di chi ha scelto di restare in Europa

Theresa May pensava di aver trovato un punto di equilibrio con il suo “piano Chequers”, respinto dai 27 in occasione del vertice di Salisburgo il 19 e 20 settembre. I mezzi d’informazione britannici hanno presentato questo fallimento come “un’umiliazione”, quando tutti sapevano benissimo che non aveva la minima possibilità di essere accettato. Raramente l’insularità britannica ha allontanato così tanto Londra dalla realtà del continente, una distanza perfettamente rispecchiata dalla differenza tra i tabloid britannici, indignati, e la stampa europea che ha quasi ignorato l’avvenimento.

La premier ha scelto la via della drammatizzazione dopo Salisburgo, adottando una retorica alla Churchill per promettere che non capitolerà. Ma non ha molta scelta davanti agli europei che, fatto abbastanza raro, sono rimasti uniti, non per “umiliare” il Regno Unito ma semplicemente per difendere gli interessi di chi ha scelto di restare in Europa.

May deve affrontare il rilancio politico di uomini come Boris Johnson, il “trumpiano” ex ministro degli esteri, o Jacob Rees-Mogg, euroscettico e thatcheriano favorevole alla Brexit dura.

Se questa “guerra”, come la definiva il 30 settembre il Sunday Times, non troverà una soluzione, saranno gli elettori a doversi esprimere, un suicidio politico per i conservatori che potrebbero dover cedere il potere ai laburisti di Jeremy Corbin, anche loro alle prese con diverse contraddizioni interne sulla Brexit.

Due anni dopo il referendum, il paese non sa ancora cosa farsene della vittoria del sì alla Brexit.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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