06 giugno 2019 11:27

È una domanda che somiglia a un tema d’esame in filosofia: si può essere nemici di un proprio alleato? Può sembrare un paradosso, ma è esattamente quello che viene da chiedersi oggi osservando Donald Trump durante le commemorazioni dello sbarco del 6 giugno 1944.

Da due anni e mezzo, ovvero da quando si è insediato alla Casa Bianca, Trump si comporta come se non avesse alleati (la stessa parola che settantacinque anni fa indicava i paesi che sbarcarono in Normandia). Attualmente viviamo un controsenso in cui gli Stati Uniti sono un alleato dell’Europa ma hanno un presidente che si considera nemico del vecchio continente e in particolare dell’Unione europea.

Gli Stati Uniti, il Canada e la maggior parte dei paesi europei appartengono da settant’anni all’Alleanza atlantica (sempre lo stesso concetto, alleati), eppure Trump non smette mai di attaccare gli europei accusandoli di non pagare abbastanza, e si è fatto pregare prima di dichiarare che il suo paese resterà fedele alle clausole di reciproca assistenza automatica in caso di aggressione.

Bersaglio costante
L’Unione europea, eredità della guerra e concepita per evitarne la ripetizione, è un altro bersaglio costante di Trump, al punto che il presidente ha consigliato a Theresa May di sbattere la porta senza nessun accordo e lusinga tutti quelli che vorrebbero vedere in rovina l’Europa unita. Con un alleato simile, chi ha bisogno di nemici?

La superpotenza dall’altro lato dell’Atlantico resta un alleato, anche se gli europei – fatta eccezione per pochi paesi come Polonia e Ungheria che adorano Trump – si considerano alleati degli Stati Uniti malgrado il loro presidente.

Si tratta di un’alleanza dalla geometria variabile, ma è tutta colpa di Trump?

Nei fatti, in diversi contesti sulla scena internazionale, si comportano come tali. Per esempio nella lotta contro il terrorismo la cooperazione non è intaccata dalle tensioni politiche, anche nel Sahel, come ha dimostrato la recente operazione francese di recupero di ostaggi in Burkina Faso, organizzata con l’aiuto di Washington.

In Medio Oriente la situazione è più ambigua: francesi, britannici e statunitensi sono impegnati insieme ai curdi siriani nella lotta contro l’Is, ma le loro strategie divergono rispetto all’Iran e al conflitto israelo-palestinese. In Asia, ribattezzata zona IndoPacifica, la Francia oppone le sue ambizioni strategiche a quelle della Cina, ma prende le distanze dagli Stati Uniti e dalla loro volontà di scontrarsi con Pechino. In sostanza si tratta di un’alleanza dalla geometria variabile.

È tutta colpa di Trump? Questo interrogativo agita i circoli diplomatici. Fino a che punto il degrado nei rapporti è attribuibile al presidente? In che misura è invece “strutturale”?

Benjamin Haddad, ricercatore francese legato a un think tank statunitense, ha appena pubblicato un libro intitolato Le paradis perdu (Il paradiso perduto) in cui mette giustamente in guardia gli europei sottolineando che “Trump non è un incidente della storia né un fenomeno passeggero, ma il sintomo di una trasformazione profonda della potenza statunitense in crisi”.

Oggi osserviamo i capi di stato alleati sulle spiagge dello sbarco. È una bella immagine, ma nasconde tensioni fin troppo reali.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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