18 giugno 2021 10:22

La vera posta in gioco alle presidenziali iraniane del 18 giugno non riguarda chi sarà eletto. Può sembrare sorprendente, ma stiamo parlando di un’elezione speciale in un paese speciale. Quest’anno l’elemento cruciale è la partecipazione, e dunque il livello di legittimità del sistema politico. E tutto lascia pensare che il sistema sia piuttosto debole.

La Repubblica islamica dell’Iran è un caso unico: ha un presidente eletto a suffragio universale, come altri paesi, ma la sua influenza è limitata, perché il vero potere è nelle mani della guida suprema, ieri l’ayatollah Khomeini, oggi il suo successore Ali Khamenei. Il presidente non ha alcuna autorità sui guardiani della rivoluzione né sull’apparato giudiziario. Nel paese esistono due strutture parallele, e l’ultima parola spetta sempre alla guida suprema.

Per questo le battaglie elettorali descritte come scontro tra conservatori e riformisti riflettono solo una parte della realtà politica iraniana, ben più complessa di quanto si creda in occidente. Ma è un errore pensare che questo abbia un peso su temi cruciali come il nucleare o i rapporti con l’estero.

Normalità lontana
Negli ultimi anni l’Iran è stato il cimitero di molte illusioni, e il tasso di astensione ne sarà il riflesso. Ricordiamo ancora come la conclusione dell’accordo sul nucleare tra Teheran e i negoziatori internazionali, nel 2015, avesse prodotto un’esplosione di gioia degna di una vittoria della Coppa del mondo. Il ministro degli esteri Mohamed Javad Zarif era diventato l’eroe di un popolo che si aspettava la cancellazione delle sanzioni, un boom economico e la fine dello stato “canaglia”. All’epoca ero andato in Iran, e ricordo che gli stranieri erano accolti calorosamente, come fossero l’avanguardia di una normalità in cui sperava un’intera popolazione.

Il favorito, senza rivali di rilievo, è figlio spirituale della guida religiosa Ali Khamenei

Ma il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo, deciso da Donald Trump nel 2018 e seguito da nuove sanzioni, ha avuto l’effetto di una doccia fredda. Nel 2019 il regime ha fatto sparare sui manifestanti che protestavano contro l’aumento dei prezzi. Nel 2020 la difesa antiaerea iraniana ha abbattuto un aereo civile ucraino durante il decollo da Teheran. La lista dei motivi di delusione è lunga. Oggi nessuno crede che un nuovo presidente possa cambiare la situazione.

L’elezione pesa paradossalmente poco sul negoziato sul nucleare, che continua ad andare avanti. Tutti sanno che il favorito è un conservatore, Ebrahim Raisi, capo del potere giudiziario e soprattutto figlio spirituale di Khameni, non foss’altro perché il sistema ha fatto fuori i suoi potenziali rivali.

Eppure la probabile elezione di un “duro” non preoccupa i negoziatori, quelli dell’amministrazione Biden o gli europei che incontrano gli emissari dell’Iran a Vienna. Khamenei, infatti, ha dato il via libera alla trattativa, e non sarà certo il presidente, chiunque egli sia, a opporsi a un eventuale accordo.

In fin dei conti le elezioni sono solo una tappa di avvicinamento alla successione di Khameni, che oggi ha 82 anni. Ebrahim Raisi, una volta diventato presidente, sarà ben piazzato per prenderne il posto. Resta da capire in che modo il regime dei mullah affronterà una maggioranza che avrà votato scegliendo di non andare a votare. Perché anche nelle dittature l’opinione della maggioranza non può essere ignorata.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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